La Scala inaugura il 7 dicembre con Madama Butterfly

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Il nuovo corso scaligero impresso dalla direzione di Riccardo Chailly si può cogliere anche dalla scelta dell’opera inaugurale di Sant’Ambrogio, da sempre ritenuto, a torto o a ragione, l’evento culturale e mondano più importante della città. L’anno scorso fu scelto Giuseppe Verdi e quest’anno tocca a Giacomo Puccini, ossia  i due autori più popolari del melodramma italiano. Anche Madama Butterfly, come la meno nota Giovanna d’arco dello scorso anno, fu presentata per la prima volta al Teatro alla Scala, e anche quel 17 febbraio del 1904, come nel caso della Giovanna del 15 febbraio 1845, la serata fu un mezzo fiasco, al punto che lo stesso Puccini scriverà all’amico Camillo Bondi che “fu un vero linciaggio” e l’editore Giulio Ricordi parlerà di Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate” in sala.

Eppure la sesta opera di Puccini, composta quattro anni dopo la Tosca e sei anni prima della Fanciulla del west, era stata presentata con interpreti di eccezione, il soprano Rosita Storchio nel ruolo della protagonista, il tenore Giovanni Zenatello in quello di Pinkerton e il baritono Giuseppe De Luca in quello di Sharpless. Ma a differenza della Giovanna verdiana, rimasta di nicchia, negli anni successivi Madama Butterfly diventerà invece una delle opere più rappresentate in assoluto in Italia e nel mondo e tra le più amate e conosciute dai melomani.

Giacomo Puccini, che aveva iniziato la sua fortunata carriera operistica narrando la più consueta Francia di Manon Lescaut e Bohème e la Roma capitolina di Tosca, con Butterfly decide di puntare sull’etnico e su quel misterioso oriente che in seguito farà da sfondo anche alla sua ultima opera, Turandot, ambientata in Cina. E per farlo Puccini introduce delle sonorità orchestrali molto innovative, quasi paragonabili a quella rivoluzione musicale compiuta molti anni dopo dai Beatles con gli album “Rubber Soul” e “Revolver”, e forse per questa ragion all’inizio l’opera non convinse, mentre in seguito incontrerà il favore dei più talentuosi direttori anche tra quelli solitamente meno avvezzi al melodramma popolare.

La storia è quella del bell’ufficiale americano che seduce la giovanissima (15 anni netti netti, si presenta) Cio Cio San per trastullarsi, secondo usanze, con una finta moglie del luogo per il forzato periodo di permanenza nipponica. Purtroppo lei invece, come avvertiva Sharpless, “ci crede”, lo aspetta per anni e quando lo vede tornare con la sua bella mogliettina americana si consuma la tragedia. In seguito l’esercito americano avrebbe fatto ben di peggio da quelle parti, ma la privata vicenda delle mogli giapponesi sedotte a abbandonate dai soldati yankee di passaggio ha da sempre riscosso un grande interesse popolare e anche il Marlon Brando degli anni d’oro ci fece un fortunato film dal significativo titolo “Saratoga”.

Dal punto di vista squisitamente operistico non può non rilevarsi, in quelle ripetute bonzerie, come le chiama Goro, una certa discontinuità di resa rispetto ad altri lavori più riusciti di Puccini, ma non mancano grandi momenti di musica e di teatro come l’entrata di Ciò Ciò San con le altre geishe, il superlativo duetto d’amore che chiude il primo atto, forse il più bello in assoluto insieme a quello de Il Tabarro, il celebre coro a bocca chiusa e tutto il finale tragico dell’eroina.

Ovviamente, visto che il “donnaiolo” per eccellenza del melodramma ha quasi sempre riservato il proprio meglio alle protagoniste femminili, anche Madama Butterfly è stata sin da subito appannaggio dei più importanti soprani del novecento, tanto in scena quanto in disco. Scorrendo i nomi che dal dopoguerra in avanti si sono cimentati non manca quasi nessuno, a cominciare da Renata Tebaldi, la cui voce torrenziale e straordinariamente ricca di armonici ben rendeva la tragicità di quel finale accompagnato da un’orchestra sempre più intensa e crescente.
E ovviamente c’è anche Maria Callas che come sempre vivisezionava il personaggio in quelle mille sfaccettature che ce la fanno ancora oggi apprezzare come la più straordinaria artista che abbia mai calcato le scene liriche, e il confronto in disco tra le due incisioni di queste due grandi primedonne, quella Emi del 1955 con la Callas diretta da Herbert Von Karajan e quella Decca del 1958 della Tebaldi con Tullio Serafin, rende ragione di ciò.

Anche se non mancano alcune successive interessanti incisioni di quest’opera, l’edizione discografica di riferimento resta quella pubblicata dalla EMI nel 1966 e diretta da John Barbirolli, per merito della strepitosa coppia amorosa formata da Renata Scotto e Carlo Bergonzi, entrambi colti in vero e proprio stato di grazia vocale. In Puccini, si sa, fondamentale è l’arte del cosiddetto “canto di conversazione”, e Renata Scotto, per molti melomani la più grande fraseggiatrice del dopoguerra, mostrerà anche sulla scena quante risorse emotive possano trarsi da questo personaggio troppe volte “risolto” con il facile stereotipo dell’ingenua sottomessa tradita.

In teatro per molti anni il ruolo è stato sostanzialmente monopolizzato dall’affascinante soprano bulgaro, naturalizzato in Italia, Raina Kabaiwanska, che negli anni ottanta ne fece un personale cavallo di battaglia, e ricordo che in una rappresentazione all’Arena di Verona cui assistetti qualche annetto fa, nonostante un materiale vocale ormai usurato e un contorno a dir poco modesto, la sua Cio Cio San spiccava ancora su tutto il resto per personalità e carisma.

Anche il compianto soprano Daniela Dessì ne realizzò qualche anno fa al Teatro milanese degli Arcimboldi una interessante raffigurazione, nel bellissimo spettacolo di Keita Asari che prevedeva nel finale quella macchia rossa che si espandeva intorno alla protagonista in un suggestivo gioco scenico di chiaroscuri.
Volendo divertirci con l’aneddotica, che nella lirica non manca mai, fu al termine di una rappresentazione di Butterfly a Chicago che Maria Callas si vide notificare a mani nel camerino una citazione milionaria per danni da parte del suo ex agente e la foto del suo volto rabbioso e ancora truccato da giapponese, che urla improperi all’incauto incaricato dalla locale Corte di Giustizia, farà il giro del mondo.

E indovinate chi fu a proporle quando ancora stava negli USA quel fortunato ingaggio per la Gioconda all’arena di Verona che nel 1947 avrebbe per sempre cambiato la sua vita ? Proprio quell’ex tenore Giovani Zenatello che era stato il primo Pinkerton di Puccini. Fu cantando quest’opera al Teatro di La Coruna nel 1963 che Montserrat Caballé conobbe il tenore Bernabè Martì che sarebbe in seguito diventato suo marito, e che le farà dire, in una simpatica intervista di molti anni dopo: “sono stata l’unica Cio Cio san che è riuscita a sposare il suo Pinkerton”. E fu infine con il ruolo di Pinkerton che il 17 giugno del 1965 fece il suo debutto a New York il tenore messicano Placido Domingo che in seguito sarebbe diventato il divo per eccellenza del Metropolitan.

Per l’imminente inaugurazione è prevista una nuova regia di Alvis Hermanis di cui poco si sa, e un cast che prevede il soprano uruguagio Maria Josè Siri, che pare abbia già cantato quasi tutto Puccini, il tenore americano Bryan Hymel, il collaudato baritono spagnolo Carlos Alvarez, già l’anno scorso ingaggiato per Giovanna d’Arco e anni addietro apprezzato Don Giovanni e ovviamente la direzione di Riccardo Chailly. Quest’ultimo ha un pedigree pucciniano di origini antiche perché fu lui a dirigere al Teatro d’opera di San Francisco nel lontano 1977 quell’edizione di Turandot passata alla storia per il contemporaneo debutto nelle rispettive parti della Principessa e di Calaf di due delle voci liriche più belle del novecento, quelle di Montserrat Caballé e Luciano Pavarotti.
Staremo a vedere e soprattutto a….sentire

*Articolo21 – Lombardia


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