Il sapore dell’albicocca

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Gabriele Lavia porta in tournée, sino al prossimo febbraio, una sua ambiziosa, ma non pedante elaborazione de “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello

“Un’albicocca spaccata a metà e spremuta…” è una delle immagini più sconce ed erotiche del teatro di tutti i tempi. (Gabrile Lavia)

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Era una notte buia e tempestosa, solennizzata da numi e canglori da ‘dies irae’, scenicamente resa pesta e parossistica, quella in cui nell’enorme stanzone (per “imprecisate attese”) d’una stazione di provincia, arrivarono due individui: uno carico come somaro di colorate cianfrusaglie da recare in dono alle presumibili ‘arpie’ di famigli; l’altro solingo e stazzonato- dall’indole istrionica, giocherellona- palesemente in fuga da altra semi-invisibile femmina che lo tampina. Tutte donne ‘avverse’ e ‘domestiche’ (nell’accezione cupo-patriarcale degli aggettivi) dalle quali si dipende come bambini e alle quali si soggiace senz’ombra di misoginia (in una sorta di astio fatalista, tipico di certe afasie ‘brontolone’ di  uomini del meridione), anzi con edipica, non confessabile voluttà. Moglie e figlie esigenti per il primo; sposa devota, raminga (defilata come inelidibile ombra nera) per il secondo.

Siamo all’incipit dell “Uomo dal fiore in bocca”, ma potrebbe anche essere il bizzarro, grottesco inizio di un inedito “Temporale” strindberghiano, se non fosse che la strologante dissertazione di Gabriele Lavia è già totalmente immersa tra i massimi sistemi della ‘vacuità del vivere’, dell’empietà con cui la matrigna natura gioca a rubamazzetto con i desideri, le fate morgane, le illusioni leopardiane dell’esistenza- qui condite di quel particolare gusto per l’edonismo intravisto, gustato e poi frustrato (irreversibilmente) di cui è ricca la letteratura e la natura stesse di Pirandello. Entrambe segnate dalle sciagure di famiglia e dall’oggettiva impossibilità sia di “recidere” i cordoni viscerali che ci legano alle creature amate (riconoscenza? pavidità?preventivi sensi di colpa al solo pensiero di esserne stato il ‘motore’?), sia  di resistere (oltre un certo numero di anni) “lontani dal paradiso” che furono ideali, progetti, vitalismi di altri anni (in Germania) -poi  devoluti in straziata ‘pena del vivere’ che accompagnerà lo scrittore sin alle estremità dello scetticismo e dell’  “amaro miele”, cui – in ricordo del caro Bufalino- solo “benigna morte” porrà imprevisto e sommesso sollievo.

Non serve quindi troppa fantasia o pessimismo per dedurre (alla maniera di Svevo e Silvio Benco) che l’unica, mortale malattia che “si porta addosso” l’uomo con l’epitelioma alle labbra non è la clinica evoluzione del suo tumore dall’enunciazione eufonica, ma il primario “Inconveniente di essere nato”  (citando Cioran) in un contesto terracqueo che non da    scampo o  alternative a chi, dalla ‘non richiesta’ venuta al mondo, pretenderebbe ‘soddisfazioni, gratifiche, sollazzi’ come il convitato ad una festa cui mai pensava di metter piede, ma vi è stato (empiamente?) “scodellato” solo per l’accoppiamento (animale, com’è giusto che sia) di un uomo e una donna che disveleranno essere i ‘genitori-promotori’ dell’umana, imperscrutabile giacenza.  Con la sola eccezione di chi, per vocazione o illuminazioni “lungo la via di Damasco” avrà la buona sorte di sapere dare ‘significanza’ mistica e metafisica al “dono” epifanico della natività. O per chi si accontenta, da appagato maschilista, a dedurre che “tra eros e thanatos…. c’è solo il sesso di la fimmina”… E perché non (anche) “Il bacio della donna ragno”?

Vada come vada, e come ben titolò un suo dimenticato film Marco T. Giordana, non c’è alibi né diserzione: “quando sei nato non puoi più nasconderti”.  Il cui intimo significato (nichilista, pessimista, apocalittico ed altre ingiurie …nulla tange) emerge con ilare, iperbolica potenza   in questo spettacolo di e con Gabriele Lavia, gustosamente assecondato nei tempi e nei ritmi dialogici da Michele Dimaria  (maschera comica e ‘inetta’, come in certe commedie di Rosso di San Secondo)- e moderatamente farcito da mosse e contromosse estrapolate, per scaglie e aforismi, da altri capitoli di “Novelle per un anno”, specie quelle in cui il paradosso filosofico-esistenziale è più radicalizzato oltre le coordinate (cerebrali?no, psico.sensitive) del  non-ritorno, per taluni tenebroso, per altri salvifico.

Ed infine, vuoi mettere il piacere di partecipare all’istrionismo di questo inedito Lavia, “umilmente” imperioso ma non titanico, “mediamente” isterico ma capace di auto.ironizzare (con stridule tonalità che parodizzano la categoria dell’ “orfico”)? Alla duttilità cupo- narcisista ma non lugubre, artefatta, dell’attore-regista, non più titanico (tutt’al più ‘notturno’), finalmente umanizzata nella fisionomia di un piccolo professore, eidetico come suggeriva Husserl (dal fenomeno alla sua totalità), ma ferrato nel suo  sfinito timbro siciliano, con cui impartisce lezioni di vita (mal-vissuta) fra pantomime e forme didattiche che rimandano allo Zi Dima de “La giara” e ad alcuni, esistiti professori di lettere che cantilenavano di Petrarca, Ariosto (“e …vedete mpò voi”) , nei remoti tempi delle nostre (intermittenti, disamorate) presenze liceali?

 

“L’uomo dal fiore in bocca…e non solo”
di Luigi Pirandello  adattamento e regia di Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Michele Demaria (in alternanza con Lorenzo Terenzi) Barbara Alesse
scene Alessandro Camera  costumi Elena Bianchini  musiche Giordano Corapi  luci Michelangelo Vitullo  regista assistente Simone Faloppa   scenografo assistente Andrea Gregori assistente alla regia Lorenzo Terenzi.  Prod. Fondazione Teatro della Toscana-Teatro Stabile di Genova
Roma, Teatro Quirino, Firenze, Teatro alla Pergola – e a seguire,   Pontedera Teatro Era,      Udine, Teatro Nuovo, Genova, Teatro Stabile


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