Tutti gli errori del Partito Benestante

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Ora che la catastrofe si è verificata, ora che Donald Trump è presidente degli Stati Uniti, che Hillary Clinton ha perso e con lei migliaia di sondaggisti, analisti, commentatori, lobbisti, grandi industriali, banchieri e tutto l’establishment variamente assortito, si può finalmente asserire che questi signori hanno smarrito da tempo il senso della realtà.
Esiste, infatti, a livello globale, una sorta di Partito Benestante, composto da persone che vivono in una di bolla d’ovatta, con redditi che consentono loro di vivere nell’agiatezza e, in alcuni casi, nella ricchezza e nello sfarzo; un partito che non conosce più il significato di destra e sinistra, anzi lo rinnega, considerandole ormai parole vuote e categorie politiche superate, visto che nei loro salotti tutto si uniforma e il conformismo regna sovrano, al pari dei bicchieri di cristallo, delle coppe di Champagne, delle tartine al salmone e al caviale, dei pettegolezzi e delle chiacchiere sul nulla tipiche di chi nella vita non ha alcun problema ad arrivare alla fine del mese e può permettersi persino il lusso della vacuità.
Spiace dirlo, ma questo partito, che ha perso di vista la complessità del reale e non riesce più a volgere lo sguardo al di là del proprio pianerottolo e del proprio minuscolo universo di relazioni amicali, d’affari e d’interesse, questo partito non è più assolutamente in sintonia con un Occidente che immagina ancora fermo agli anni Ottanta mentre, purtroppo, il benessere e le prospettive di quella stagione sono ormai svanite da tempo.
Il Partito Benestante, vittima dei propri salotti, della propria autoreferenzialità e dei luoghi che frequenta, sempre gli stessi, in metropoli ormai trasformate in vetrine dalle quali sono stati espulsi il dolore, la sofferenza e la disperazione sociale, continua a raccontarsi e ad ammannirci analisi che non stanno né in cielo né in terra, seminando terrore a piene mani e spiegandoci, con somma tracotanza, che le elezioni si vincono al centro e che chi non si adegua a questa logica è, di fatto, destinato alla sconfitta.
È questa resa culturale, questa subalternità assoluta al liberismo arrembante, questa mancanza di prospettive, di sogni e di utopie, la demonizzazione del concetto stesso di ideologia, la rassegnazione all’ineluttabilità di uno status quo ormai palesemente insostenibile, è questa paura di cambiare, di rinnovarsi, di sperimentare e di credere in qualcosa di diverso, rinnovando il proprio immaginario e le proprie categorie mentali, ad aver indotto, ad esempio, i vertici del Partito Democratico a puntare sulla scialba Hillary Clinton, ostacolando in tutti i modi possibili e immaginabili un candidato, Sanders, che con le sue ricette socialiste scaldava i cuori di quei milioni di americani che la crisi prima e una ripresa insufficiente poi hanno messo in ginocchio.
Perché il punto, caro establishment, è che non si può chiedere di esprimere un voto “responsabile” a coloro che da questo genere di voto non trarrebbero alcun beneficio, giusto per perpetuare un sistema socio-economico che avvantaggia unicamente voi e dal quale i ceti sociali più deboli hanno ricevuto solo delusioni e una discesa repentina nell’abisso.
Non si può chiedere un voto “responsabile” all’operaio del Michigan la cui fabbrica ha chiuso e delocalizzato per via di una globalizzazione sbagliata che, invece di favorire gli scambi culturali e la piena comprensione dei benefici di una società multietnica, ha riguardato per lo più le merci e i capitali finanziari, finendo col ridurre le persone alla stregua di oggetti e col privarle di ogni diritto, di ogni tutela e della maggior parte delle conquiste ottenute nei primi decenni del dopoguerra, scatenando una competizione globale feroce e devastante che ci ha reso tutti peggiori, più fragili e più soli.
Non si può chiedere un voto “responsabile” al disoccupato greco, alla studentessa spagnola, al precario italiano, ai francesi che vivono lontano dalle luci di Parigi e agli inglesi per cui la bella Londra resta un miraggio: non ne avete il diritto. Voi che avete redditi che vanno dalle centinaia di migliaia ai milioni di euro o di dollari l’anno, voi che abitate negli attici del centro, a due passi dalle strade più lussuose e illuminate delle varie capitali, voi che se state male potete per mettervi i migliori medici e chirurghi di fama internazionali, voi che non dovete preoccuparvi minimamente per l’avvenire dei vostri figli perché un modo per sistemarli, grazie alla fama e al reddito, lo trovate senz’altro, voi che non sapete nemmeno quale volto abbia la sofferenza degli esclusi e quale senso di frustrazione essa generi, voi, tutti voi, non avete alcun diritto di chiedere a persone che guadagnano in un anno ciò che voi vi mettete in tasca in una settimana o, al massimo, in un mese di aiutarvi a difendere un sistema dal quale loro non traggono alcun vantaggio. E poi che significa oggi essere responsabili? Responsabili verso chi, verso cosa? Anche Scilipoti, se permettete, si definì responsabile nel momento in cui votò a favore del governo Berlusconi e non mi sembra che da quella scelta il nostro Paese abbia tratto alcun beneficio.
La verità, illustre establishment, è che ti manca Pasolini, ti mancano le sue riflessioni di periferia, ti mancano le analisi di Bauman sulla società liquida e le sue conseguenze, sulla solitudine del cittadino globale e sul suo senso di perenne sconfitta al cospetto di problemi troppo grandi per essere affrontati a livello locale o anche come singoli stati. La verità è che quasi tutti i membri di questo guscio di privilegiati veri, che si permette pure di definire tali i pensionati col retributivo o quei lavoratori cui non sono ancora riusciti a togliere l’articolo 18, rendendoli così licenziabili in base all’umore del ceto dominante, cioè di loro stessi, costoro non si stancano mai di citare papa Francesco ma non ne attuano alcun messaggio o insegnamento, considerandolo, al pari di ogni altro pensatore sociale, un onesto predicatore illuso, i cui libri sono chic se li si espone in libreria, a patto che nessuno si permetta di leggerli e, peggio ancora, di farne un progetto politico di rinnovamento della società e di cambiamento della sua direzione di marcia e delle sue caratteristiche.
Senza contare che nessun membro di questo establishment mondiale intende davvero abbattere le disuguaglianze o anche solo ridurle, attenuando le differenze fra chi sta in alto e chi sta in basso, chi ha e chi non ha, chi può e chi non può, la cui unica ambizione si riduce alla mera sopravvivenza.
In un simile contesto di sfacelo internazionale, è davvero risibile parlare di “rigore sbagliato a porta vuota” a proposito della vittoria mutilata di Bersani nel 2013, come se il disagio sociale non fosse già al diapason dopo circa vent’anni di globalizzazione sregolata, la lunga e drammatica stagione berlusconiana, il triste periodo montiano e tutti i disastri che si erano verificati nel frattempo.
Così come è stato davvero risibile e fuori dal mondo esaltarsi per un 40,8 per cento assolutamente drogato dagli ottanta euro e dalle effimere speranze suscitate da un leader che ha iniziato subito dopo a perdere consensi, proprio perché non ha avuto il coraggio, né la capacita, di invertire la rotta e di remare in direzione ostinata e contraria rispetto a un modello le cui ricette hanno ampiamente fallito in ogni parte del mondo e a un terzaviismo che ha indotto la sinistra a spostarsi talmente a destra da risultare odiosa, al punto che i suoi ex elettori, la sua base storica, le periferie abbandonate e lasciate in balia dei propri innumerevoli problemi si affidano a qualunque pifferaio prometta loro un minimo di comprensione e di protezione. E spiace dirlo, caro Partito Benestante, ma non abbiamo il diritto di tacciare di razzismo chiunque, per disperazione, si affidi a Salvini o a Trump perché in quelle braccia poco sicure ma apparentemente confortevoli ce li abbiamo spinti noi; e il nostro terrorismo, la nostra ideologia della paura e le nostre menzogne non sono meno riprovevoli delle loro, anzi lo sono molto di più.
La verità è che noi di questo mondo non capiamo nulla da almeno quindici anni, da quando cioè ci permettemmo di insultare e schernire chiunque chiedesse un’altra globalizzazione, più equa e sostenibile, a misura d’uomo e in grado di non lasciare indietro nessuno. Sarà dura riconquistare questa gente, ricomporre una frattura storica che dura ormai da troppo tempo, modificare il nostro immaginario e cambiare radicalmente rotta; tuttavia, o saremo capaci di fare tutto ciò, chiedendo scusa per gli errori commessi e mettendo in gioco innanzitutto noi stessi, o consegneremo l’intero Occidente a quei terribili “populisti” che, in confronto alla nostra squallida ipocrisia, sembrano quasi persone perbene.


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