Quella Francia sola e senza più l’ésprit de vivre, dopo le stragi al Bataclan

0 0

Ha perso il sorriso Luca, il nostro amico pittore. Ha perso anche lui “l’ésprit de vivre” parigino che contraddistingue tutti coloro che, francesi o cittadini del mondo, scelgono di stabilirsi nella capitale in cerca di un’occasione per realizzarsi. Non ha perso la speranza, ma gli occhi non vedono più “oltre”, restano inchiodati alle immagini del sangue dei feriti, all’inamovibilità dei morti: come quelli caduti a terra o rimasti innaturalmente seduti sulle piccole sedie delle “terrazze” dei bar, con lo sguardo fisso a seguire le parole dei loro amici. Il terrore di chi scappa e si rifugia dentro la pizzeria a taglio italiana, in cerca di un riparo, ammassato insieme a tanti altri nello scantinato, aspettando per qualche ora che tutto sia davvero finito. 

Le grida di dolore e le richieste di aiuto dei feriti, lui non le ha dimenticate. E così si emoziona ancora, si commuove e si blocca, non parla più per un po’. E poi quasi di malavoglia, ricorda: “Ero lì, davanti al bar Carillon, a prendere una pizza e sono uscito per fumare. Ho sentito strani rumori a ripetizione. Io ed altri non abbiamo capito subito di cosa si trattasse.

Qualcuno ipotizzò si trattasse di un regolamento di conti tra bande di criminali. Ci sembrava strano, però, nel nostro quartiere. Poi abbiamo visto nella terrazza del Carillon alcune persone che cadevano a terra come fossero dei sacchi, altre che si rifugiavano dietro ai tavolini o che entravano dentro al bar. E grida di sofferenza, di chi chiedeva aiuto. E poi di nuovo le raffiche. I terroristi sono ripassati in macchina per finire la loro mattanza. Allora abbiamo avuto tutti paura, siamo rientrati dentro la pizzeria, qualche madre con i figli ha cercato un rifugio e siamo scesi nel magazzino sotterraneo”. Qui il ricordo si ferma. All’uscita tante sirene e la voglia incauta di fuggire, di forzare i blocchi della polizia, di tornare verso casa, l’arrivo in sicurezza e le notti insonni “per cercare di dimenticare quelle scene”. Ma lui non ci riesce ancora e così in questi giorni, è andato via da Parigi per un po’, per non essere coinvolto emotivamente dalle celebrazioni ufficiali. “Dov’erano i servizi segreti, dopo la strage a Charlie Hebdo? Perché le forze di polizia sono entrate in azione così tardi al Bataclan?”, si domanda ancora.

130 morti, 413 feriti gravi e mutilati, 4.000 sopravvissuti definiti dalla Commissione d’inchiesta parlamentare “vittime ferite psicologicamente e fisicamente”. Giovanissimi, adulti, anziani, cristiani, ebrei, musulmani di 16 nazionalità diverse otre alla francese. La terza strage di civili dalla fine della Seconda guerra mondiale, dopo la bomba sull’aereo della Pan-Am precipitato su Lockerbie in Scozia (270 morti nel 1988) e alle stazioni di Madrid (191 vittime nel 2004). Tra i morti al Bataclan, secondo le testimonianze dei sopravvissuti, alcuni presentavano il taglio della gola, estrema barbarie dei fondamentalisti dell’ISIS una volta terminate le munizioni, altri erano irriconoscibili perché fatti esplodere insieme ai kamikaze. Infine, la tragedia silente e meno conclamata dei mutilati, per lo più giovani, con grandi devastazioni sul viso, le gambe e le braccia. Per loro, il Bataclan resterà come le stigmate indelebili fino alla fine dei loro giorni, insieme alle cruente e orribili immagini della mattanza in nome di “Allah è grande”!

Blasfemi quei fondamentalisti che, in nome di un falso Dio guerriero e vendicatore, si arrogarono il diritto di strappare i fili della vita a persone inermi, come fossero moderne Parche senza occhi! Che non si fermarono neppure più tardi, all’aeroporto e alla metro di Bruxelles il 22 marzo scorso (32 morti di 12 nazionalità oltre la belga e 340 feriti) e a Nizza lungo la famosissima Promenade des Anglais, durante la festa nazionale del 14 luglio (86 morti di 28 nazionalità oltre la francese e 302 feriti).

In un anno l’atmosfera a Parigi e nel resto della Francia è cambiata profondamente. In apparenza la vita continua come prima, ma la stretta vigilanza dei reparti speciali della polizia e dell’esercito in molti punti chiavi (quartieri ebraici, sinagoghe, cattedrali, moschee, grandi vie commerciali e magazzini famosi, le metro) stanno a significare che il pericolo è sempre in agguato: lo “stato di emergenza” è ancora in vigore e nessuno pensa che verrà tolto a breve. Ad ogni strano rumore, come lo scoppio di petardi o di una marmitta, la gente si rifugia nei negozi, ci si abbassa. Le bande dei cosiddetti “maghrebini”, giovani arabi di seconda e terza generazione, vengono scrutate con sospetto e ci si allontana dalla loro presenza. Polizia e gendarmeria controllano strettamente i quartieri e le banlieu dove la presenza islamica è massiccia. A volte ci sono scontri e scatta la “caccia al flic” isolato: accoltellamenti, bombe incendiarie. Ma la stragrande maggioranza degli oltre 6 milioni di francesi di religione musulmana (arabi e neri) vivono con angoscia questa identificazione mediatica e strumentale da parte dei partiti di destra specie il Front National della Marine Le Pen), che in vista delle elezioni presidenziali di primavera 2017, cercano di far leva sull’insicurezza dei cittadini e agitano lo spettro dell’immigrazione clandestina, ritenuta l’origine di tutti i mali sociali ed economici.

Eppure, molte delle vittime degli attentati erano francesi musulmani; nelle forze speciali di sicurezza, molti sono di religione islamica; le rappresentative nazionali di sport popolari come il calcio, l’atletica, pallacanestro, pallavolo, scherma, tennis, sono per lo più formate da campioni musulmani, neri, o maghrebini. Parlando con dei parigini di origini arabe, ci si rende conto che le prime vittime di questa violenza e di questa ondata di “sospetto razzista” sono proprio loro, che invece si sentono “prima di tutto francesi, convinti repubblicani”. Ecco, “lo spirito repubblicano” che accomunò milioni e milioni di persone l’11 gennaio del 2015, sfilando per le strade delle maggiori città francesi e soprattutto a Parigi, dopo l’eccidio alla redazione di Charlie Hebdo e all’Hyper Cacher, quel senso di appartenenza agli ideali della rivoluzione liberale francese si sono appannati.

Anche la comunità ebraica (oltre 600 mila persone, la metà di quanti vivono in Europa) si sente talmente minacciata, che a gruppi di 3/4 mila l’anno emigrano verso Israele (nonostante le crescenti difficoltà di inserimento e di occupazione, e le facilitazioni del governo di Tel Aviv per agevolare l’Aliyah). Dopo anni ed anni di attentati e uccisioni da parte di neonazisti e terroristi islamici, la storica comunità che tanto ha dato alla cultura, alla società, all’arte e all’economia della Francia, oggi comincia a sentirsi “straniera in casa propria”. E cresce anche il disincanto sia a sinistra, che non si sente più rappresentata da un opaco presidente della Repubblica, come François Hollande o dai partiti tradizionali, come il PS, il PCF, i trotskisti e la “nouvelle guache”; come pure tra i conservatori, tra coloro che una volta si riconoscevano nei “neo-gollisti”, nell’appartenenza allo “spirito repubblicano”, certo non xenofobi né antisemiti.

Cosa resta, dunque, della Francia dopo il sangue delle vittime di quel tragico 13 Novembre, dopo le lacrime, le emozioni, le commemorazioni? E’ sintomatica, triste e malinconica, la risposta che cerca di dare l’autorevole Le Monde nell’editoriale commemorativo, a firma di Benoit Hopquin:

“La Francia ha scoperto che il terrorismo non è più circoscritto, “riservato” agli ebrei, ai giornalisti, ai poliziotti. E’ diventato, se non proprio un evento quotidiano, qualcosa di possibile per tutti noi. Con gli attentati del 13 novembre la società francese ha incassato un “Uppercut”, un “KO”. Cittadini comuni, giovani, come le vittime parigine, ci hanno raccontato come quell’episodio ha alterato la loro vita, ha installato paure insidiose, nuovi riflessi e reazioni forti. E anche i francesi di religione musulmana dicono ugualmente come si sia modificato lo sguardo nei loro confronti. Da un anno viviamo in stato di emergenza, i discorsi politici si sono esacerbati; e le leggi, le libertà pubbliche, sono diventate più flebili a favore della sicurezza; alcuni principi messi da parte in nome della lotta contro il terrorismo. Il mito dell’Unità nazionale, accarezzato dopo gli attentati del gennaio 2015 non è sopravvissuto alla mattanza del 13 novembre. Quel dramma non ha fatto che aggravare gli antagonismi: fino a dove e per quanto tempo ancora? E’ difficile rispondere a così breve distanza dai fatti, a bruciapelo. E’ passato solo un anno: è davvero troppo poco”.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21