L’onda lunga delle chiese evangeliche

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Del sub-continente americano, in Italia continuiamo a dire che è il più cattolico del mondo. Ma è uno stereotipo. Altrettanto vacuo della stretta parentela puntualmente proclamata nel lessico politico-diplomatico (“siamo cugini…”, “siamo fratelli…”), in virtù del sangue che tra l’Ottocento e il secolo scorso milioni di nostri emigrati hanno trasfuso nelle popolazioni tra l’istmo e la Terra del Fuoco. Che però da decenni non parlano più italiano, nè hanno il paese di origine dei loro avi come principale riferimento culturale. Così come da parte nostra appare ormai ben lontano il tempo in cui Parlamento e governo concepirono e posero in atto una strategia di specifica e concreta attenzione all’America Latina, mezzo miliardo di persone con economie periodicamente turbolente ma in forte crescita. L’Istituto Italo-Latino Americano (IILA) che riunisce a Roma tutti i 20 paesi dell’area -un organismo prezioso, ancora oggi unico nel suo genere- è stato creato nel 1966 e al momento non vive la sua migliore stagione.

In realtà una più che affollata cosmogonia di chiese, sette, raggruppamenti religiosi cristiani anche tra di essi notevolmente diversi, nondimeno con dottrine e liturgie che si richiamano tutte alla riforma condotta da Martin Lutero nel 1500 contro la Chiesa di Roma e perciò detta protestante o luterana, è divenuta protagonista della scena politica americana. Gli evangelici hanno esordito negli Stati Uniti, dove rappresentano fin dallo sbarco dei padri pellegrini del Mayflower un elemento culturale fondante. Rispettoso tuttavia del principio di separazione tra stato e chiesa, tra sentimento religioso e coscienza civile. Fino a poco meno di una cinquantina d’anni addietro, nella seconda metà dei Sessanta. Fu allora che a quel basilare principio della modernità il reverendo battista Jerry Falwell diede una formidabile spallata, organizzando la Moral Mayority, che non riportò nella società la morale promessa, sospinse però la destra radicale di Ronald Reagan alla Casa Bianca.

 Quella stessa lettura fondamentalista delle Sacre Scritture, contraria al libero arbitrio, all’ emancipazione della donna, ad alcune pratiche terapeutiche, al divorzio, all’aborto, ai gay, è stata poi diffusa nel sub-continente da legioni di missionari spesso addestrati a tecniche di marketing. Già nel 1969, viaggiando in camion da Rio de Janeiro al Nordeste brasiliano, mi avevano colpito le centinaia di scritte a vernice nera “Cristo è” sulle grandi pietre che costeggiavano le strade. Lo avevo commentato con Dom Helder Camara, allora arcivescovo di Olinda e Recife, che ero andato a intervistare in Pernambuco. Ed egli mi aveva spiegato che si trattava di un’iniziativa promossa da alcune chiese evangeliche del sud degli Stati Uniti. Nella sua autobiografia “Confessions of an economic Hit Man”, il noto economista e manager statunitense John Perkins racconta poi di come quel reclutamento avesse qualche radice già nei Peace Corps, istituiti da John Kennedy per propagandare la sua “Nuova Frontiera” e subito infiltrati da servizi segreti e interessi corporativi.

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L’influenza politica degli evangelici è via via cresciuta fino a diventare oggi evidente, talvolta decisiva come risulta negli ultimi e più rilevanti episodi della politica sudamericana. In Colombia è stata determinante nel referendum che recentemente ha respinto gli accordi di pace conclusi dopo 4 anni di impervie trattative tra il governo del presidente Santos e la guerriglia delle FARC. Secondo la Confederazione Evangelica colombiana (CEC), 4  dei 12 milioni di votanti che si sono presentati alle urne erano evangelici e nella quasi totalità si sono espressi in favore del NO. Confermano questa indicazione anche l’altro grande raggruppamento evangelico, il Consiglio Nazionale della Confederazione per la Libertà Religiosa (CONFILEREC), e una delle maggiori agenzie di rilevazione demoscopica. Vale tener conto che il NO al referendum ha prevalso per una differenza minima.

La preponderante maggioranza dei pastori che guidano gli evangelici sono schierati nella rigida difesa della famiglia tradizionale. Critica i termini dell’intesa grazie a cui è stato possibile arrestare una guerra feroce, che devasta il paese da oltre mezzo secolo con centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Non è d’accordo con la cosiddetta “giustizia transizionale”, una sorta di amnistia applicata in più parti del mondo a fronte di situazioni analoghe. Pretende maggiore severità nei confronti dei combattenti delle FARC, quanto meno dei massimi dirigenti. Non vuole che vengano loro riconosciuti diritti politici; senza i quali, però, la pace diventa più che difficile. Ma soprattutto mira a portare la predicazione evangelica nelle scuole pubbliche e si oppone alle intenzioni del presidente Juan Manuel Santos, moderato, laico e liberale, di cancellare quanto più possibile le discriminazioni tra i diversi sessi, anche nel matrimonio e nell’adozione di bambini.

Punto di riferimento naturale dell’episcopato evangelico (ma -per la verità- anche della parte più tradizionalista di quello cattolico), è divenuto l’ex presidente Alvaro Uribe. Duro conservatore, egli non nega apertamente il valore della pace, preferirebbe però ottenerla per mezzo di una vittoria militare tanto sulle FARC quanto sul molto meno potente ELN, l’altro gruppo guerrigliero ancora attivo nel paese. E non toccare il latifondo. Alle FARC, che come capo di stato ha combattuto strenuamente senza tuttavia riuscire a sconfiggerle sul terreno, egli attribuisce anche l’assassinio del padre, un proprietario terriero al quale il terrorismo paramilitare guardava con rispetto e simpatia. E’ questo groviglio di valori arcaici, sentimenti e risentimenti personali, interessi poco lungimiranti e ancor meno trasparenti che ha imbrigliato l’iniziativa di pace del presidente Santos, spingendo la Colombia a una nuova trattativa che presenta i rischi d’una roulette russa.

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In Brasile, il paese-chiave del Sudamerica, gli evangelici sono diventati oltre il 16 per cento dei 210 milioni di abitanti (in numero assoluto la metà circa della popolazione italiana, in cui sono anche in costante crescita: 610mila solo i pentecostali). Anche qui, nel sincretismo religioso che per secoli ha felicemente permesso la convivenza dei santi cattolici con quelli d’origine africana dell’umbanda e con gli oscuri riti del candomblè, si è creato ampio spazio il fondamentalismo degli evangelici che della Bibbia fanno in genere una lettura sommaria e dogmatica al tempo stesso. Insieme agli spettri implacabili del rigore e della vendetta, che ignorano la pietà cristiana al pari del concetto di piena umanità che vincola a un comune destino l’intero genere umano, essi hanno saputo tuttavia riportare nella loro liturgia quella gioiosa leggerezza verso cui certi settori popolari mostrano -non esclusivamente in Brasile- una spontanea inclinazione.

Il mix di questa socializzazione rigenerata nell’allegria con l’uso accorto delle più avanzate teorie della comunicazione spiegano non poco dell’espansione ottenuta dagli evangelici. Soprattutto nei settori della popolazione più esposti ai traumi della ristrutturazione economica accelerata dalla globalizzazione, tra i migranti che attraversano mari e frontiere così come tra quelli che espulsi dal lavoro e dall’ambiente abituali sono indotti a cercare riparo nei grandi agglomerati suburbani del proprio paese. Negli ultimi decenni, il tempio evangelico si trova assai spesso più vicino e più aperto di quelli cattolici alla folla crescente degli sradicati e degli emarginati, particolarmente bisognosa di conforto. E oltre a quello della parola, di cui sono particolarmente generosi, i predicatori offrono anche inserimento sociale e aiuti materiali in cambio di adesioni soprattutto ma non esclusivamente spirituali.

“E’ una fortezza il nostro Dio…”, cantano fino a notte fonda sulle note musicate da Bach, molte delle stazioni radio e TV che ogni pastore si preoccupa il più in fretta possibile di organizzare accanto e a sostegno del proprio tempio. Questi media servono a stabilire una comunicazione permanente all’interno della comunità ecclesiale e con le altre “riformate”, per dibattere temi d’interesse generale non meno che per scambiare informazioni sulle possibilità di alloggio e di lavoro disponibili. Di qui all’incontro con la politica strettamente intesa, al rapporto con le amministrazioni locali e regionali ma anche con l’autorità centrale, il passo è breve e quasi ineludibile. I fedeli, del resto, sono anche elettori. I governi certo non lo ignorano. Quelli di Lula, che all’inizio non li avevano in grande simpatia, alla fine davano loro sovvenzioni milionarie insieme alle autorizzazioni ad occuparsi del recupero dei tossicodipendenti.

Non ha quindi stupito il trionfo di numerosi candidati sostenuti dagli evangelici alle ultime elezioni municipali brasiliane, che hanno invece segnato il traumatico arretramento del Partito dei Lavoratori, il PT di Lula e Dilma Rousseff. Nonostante ciò, qualche clamore è stato sollevato dall’elezione a sindaco di Rio de Janeiro del vescovo della Chiesa Universale e già senatore ultra-conservatore per il Partito Repubblicano Marcelo Crivella, di lontane origini italiane. La rivista conservatrice Veja, la più diffusa del paese, l’aveva ripetutamente denunciato per diversi, gravi episodi d’intolleranza e violenza di cui si era reso protagonista insieme alla sua chiesa. Lui ha però scelto il silenzio e abilmente schivato ogni polemica. Lasciando la parola allo zio, fondatore della Chiesa Universale, che accusa la chiesa cattolica di essere “la piaga più purulenta del Terzo Mondo”.

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