L’Italia, l’Europa e il “meno peggio”

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Cominciammo in Italia, qualche anno fa, mitizzando la filosofia del “voto utile” e invitando i cittadini a non accordare il proprio consenso a quelle forze di sinistra che magari consideravano più affini alle proprie idee e ai propri valori ma che per mille motivi, compresi i loro numerosi errori nel corso dei governi di centrosinistra, non avevano oggettivamente la possibilità di arrivare alla guida del Paese. Erano gli anni del maggioritario a più non posso e del bipolarismo esaltato come la panacea di tutti i mali, al punto che qualche noto stratega ci illustrava trionfante la prospettiva di un sistema bipartitico, come in America e nel Regno Unito. Il risultato fu che Berlusconi vinse senza patemi d’animo nel 2008 e rimase a galla fino al 2011, quando, di fatto, fu la sua sopraggiunta impresentabilità a convincere i mercati e le cancellerie internazionali a voltargli le spalle, anche perché il rischio Italia, essendo il nostro paese “too big to fail”, stava diventando uno spauracchio per l’intera Europa. La conseguenza fu il governo Monti e, ancora una volta, a sinistra, pensammo bene di far allontanare da noi alcuni piccoli partiti, quali ad esempio Rifondazione e l’IdV, in nome della governabilità, della stabilità del sistema e, soprattutto, del corteggiamento delle cosiddette forze moderate e centriste che di moderato non hanno assolutamente nulla e oggi si collocano in terra ignota, chi di qua, chi di là, essendo il centrismo una tendenza politica tramontata già sul finire degli anni Cinquanta e definitivamente scomparsa con la diaspora democristiana del ’94, quando i cattolici democratici abbracciarono prima il PPI di Martinazzoli e poi l’Ulivo di Prodi mentre i dorotei trovarono collocazione in Forza Italia o in alcuni partiti-satellite come il CCD, il CDU e, successivamente, l’Unione di Centro. La conseguenza di questo ventennio di errori, cedimenti e degrado politico, ideale e ideologico è stata la nascita di un soggetto sgangherato ma quanto meno in grado di restituire una casa a milioni di elettori dispersi e rifiutati da tutti, neanche avessero la rogna: parlo, ovviamente, del M5S.

E anche nel 2013, al netto della mia stima e della mia simpatia per Bersani, la campagna elettorale del PD si basò principalmente sullo schema dell’usato sicuro da contrapporre al salto nel vuoto, di un mal celato moderatismo e della compensazione al centro delle innumerevoli istanze di giustizia sociale, uguaglianza e dignità delle persone e del lavoro che si levavano nel Paese, con la conseguenza di un sostanziale pareggio fra PD e 5 Stelle, una marginalizzazione del mitico polo tecnocratico di Monti, con annessi Fini e Casini, e un salutare arretramento della destra a trazione berlu-leghista.
In poche parole, avevamo sbagliato alla grande l’analisi politica e l’interpretazione della realtà sociale, consegnandoci, nuovamente, nelle mani di un Presidente della Repubblica secondo cui la bislacca compagine grillina è, di fatto, l’incarnazione del male, dunque deve essere arginata e tenuta lontano dal potere con ogni mezzo, primo fra tutti le larghe intese.
Così è arrivato Letta: un galantuomo che racchiude in sé tutti quei valori europeisti che, a soli cinquant’anni, ne fanno una riserva della Repubblica e uno statista stimato e apprezzato in Europa e nel mondo; peccato che Letta, come avrebbe ammesso successivamente in un bel saggio edito da Mondadori e in varie presentazioni del medesimo, non solo non avesse alcuna intenzione di schiacciare i 5 Stelle ma si rammaricasse, al contrario, di non averli capiti per tempo, pertanto anche lui fu sostituito, lasciando strada a un populista duro e puro, chiamato a Palazzo Chigi con il preciso scopo di fermare i “barbari alle porte” e di consolidare le forze di sistema, dando vita a una maionese impazzita tenuta insieme unicamente dalle ambizioni di potere denominata Partito della Nazione.
Il resto è storia recente e, come si è visto alle ultime Amministrative, i pentastellati godono di ottima salute, con la prospettiva, grazie a quell’altro colpo di genio dell’Italicum, di poter sbaragliare qualunque avversario al ballottaggio e di poter andare a governare da soli, in una perfetta eterogenesi dei fini napolitanici.
Chi scrive non dà pagelle e non punta il dito contro nessuno, anche perché sono il primo ad aver avallato per anni questa deriva e ad essermi crogiolato in quest’assurditdità del moderatismo e delle elezioni che si vincono al centro, contribuendo, nel mio piccolo, a far declinare l’identità della sinistra al punto di farla sbiadire fino a precipitare nel baratro di inconsistenza nella quale si trova attualmente.

Non siamo esenti da colpe, nessuno di noi: se oggi c’è Renzi e se ha potuto compiere, pressoché indisturbato, tutto ciò che ha compiuto in questi anni, acuendo il malessere sociale fino a farlo sfociare in una vera e propria furia, contenuta soltanto dalla presenza di un movimento che potrà anche non piacerci ma al quale va senz’altro ascritto il merito di averci evitato l’incubo lepenista, è perché in questi vent’anni, forse anche trenta, di barbarie ci siamo dentro fino al collo.
E la nostra principale colpa, al pari dei cugini d’oltralpe, è proprio quella di esserci arresi, di esserci rassegnati, di aver smesso di studiare, di leggere, di cercare e di apprezzare l’inquietudine del dubbio per rifugiarci in false ed effimere certezze, in slogan privi di senso e in analisi politologiche da supermercato con le quali ci siamo convinti l’un l’altro dell’ineluttabilità di determinati processi e dell’immutabilità del panorama socio-politico ed economico. Ovviamente, siamo al cospetto di un’infinita serie di scemenze, rese ancor più indifendibili dal fatto che viviamo in un mondo in cui negli ultimi quindici anni è cambiato tutto, al punto che gli stessi cultori della “fine della storia”, contraddicendo palesemente se stessi, ci spiegano oggi che bisogna modificare la Costituzione per rendere più rapidi i processi decisionali nel contesto di un pianeta che viaggia a mille all’ora.
Non apriamo qui l’ampia parentesi, che pure sarebbe necessaria, sulla necessità di fermare o, quanto meno, di ridurre la velocità di questa macchina stritolante, prima che questo moto perpetuo finisca col travolgere tutto e col lasciare i più deboli in balia della propria disperazione e, quindi, delle peggiori forme di populismo xenofobo mai viste dal dopoguerra, e ci concentriamo, invece, su un altro mantra in voga da qualche anno a questa parte: la filosofia del “meno peggio”.
Prendete, ad esempio, gli Stati Uniti. Ricordate i peana pro-Hillary di buona parte dell’intellighenzia liberal? Ebbene, ce ne siamo già occupati qualche giorno fa e abbiamo già ampiamente spiegato che nessuno di essi ha il diritto di giudicare, tanto meno male, l’operaio del Michigan, della Pennsylvania o dell’Ohio che ha votato Trump, in quanto la upper middle classe di New York, di cui la Clinton costituisce l’emblema, rappresenta ormai soltanto se stessa e i propri interessi milionari. Qualcuno ha provato a obiettare: ma anche Trump è un esponente della medesima, oltretutto è un bancarottiere, un razzista, un evasore fiscale dichiarato, un personaggio che ha fatto affari con i peggiori soggetti della città! Tutto vero, ragazzi, ma se ancora non vi fosse chiaro è proprio la logica menopeggista a non funzionare più. Se dipingi l’avversario come un mostro, non puoi presentare contro di lui una tizia inaffidabile, la cui unica ragione per votarla è che il rivale è sostenuto dal Ku Klux Klan: con buona pace della mia categoria, il giovane precario, l’operaio sfruttato o il medio borghese che ha subito un processo di proletarizzazione a causa proprio dell’azione di governo portata avanti dal presidente Clinton, su consiglio di sua moglie, di queste finezze per frequentatori dei salotti buoni non sa che farsene. Sarà triste, sarà aberrante, sarà indegno, volgare e inaccettabile ma è così, e non possiamo continuare a tacciare i più deboli di essere degli emuli di Goebbels perché il rischio di scadere nel ridicolo è dietro l’angolo.

E che dire della Francia, dove la sinistra si è suicidata a colpi di liberismo spinto, arroganza e riforme sbagliate, dannose e contestatissime e la destra sembra intenzionata a fare altrettanto, domenica, affidandosi alla “droite thatchérienne” di Fillon anziché alla saggia “droite chirachienne” di Juppé? Non me ne vogliano le vestali del perbenismo, ma io stesso, benestante uomo di sinistra, se da una parte mi trovassi madame Le Pen e dall’altra un ultra-liberista che propone tagli selvaggi, thatcherismo a gogò, licenziamenti a sfascio e un massacro sociale senza precedenti, compresa l’abolizione delle trentacinque ore (su cui, purtroppo, è d’accordo anche Juppé) non andrei a votare. Sceglierei per disperazione Mélenchon al primo turno, giusto per tenere vivi i pochi valori della sinistra rimasti, dopodiché lascerei che a scegliere fra la figlia di un fascista mai pentito e un Reagan dall’accento francese, talebano e bigotto persino sui diritti civili, fossero gli altri: a me di questi due non va bene nessuno e non so nemmeno, pensate cosa arrivo a scrivere, se davvero l’incubo frontista sarebbe il peggio che potrebbe capitare alla Francia. Meno che mai potrei accettare di votare un sostenitore del Partito della Nazione come Macron, capace di prendere il peggio da entrambi i versanti, o un fallimento ambulante come Hollande o il suo braccio destro Valls.
Mélenchon è un onesto esponente della sinistra di cui avremmo bisogno; Montebourg, probabile sfidante di Hollande alle primarie socialiste, a meno che il nostro eroe non scelga per dignità di ritirarsi, sarebbe un primo mattone per ricostruire il Partito Socialista (al momento invotabile, a prescindere da chi sarà il suo candidato), potrebbe riuscire nell’impresa di salvare quanto meno la faccia di una compagine ridotta a brandelli; Juppé sarebbe uno Chirac destinato a governare per un solo mandato, vista l’età non proprio verde, ma comunque in grado di tenere a galla un Paese martoriato dal terrorismo jihadista e con una questione sociale interna che ha riaperto antiche piaghe e ne ha prodotte di nuove, spargendovi per giunta il sale del malcontento e della rabbia verso un’élite rivelatasi semplicemente catastrofica. Al di là di questi tre, sarebbe barbarie contro barbarie e, mi spiace, ma non la considero una logica accettabile, così come non considero accettabile alcuna forma di ricatto.
Infine la Germania, dove pare che l’SPD, destinata comunque alla sconfitta, abbia deciso finalmente di porre le basi per il dopo Merkel, provando a ricomporre la frattura a sinistra con la Linke e i Grünen tramite la candidatura di Schulz, accantonando i fautori del pangermanesimo e dello schröderismo di cui Gabriel è l’esponente più alto in grado.
Ovunque nel mondo si avverte, insomma, il bisogno di una sinistra che torni ad essere di sinistra e a svolgere il proprio mestiere, al punto che persino un economista vicino alla Scuola di Chicago come Zingales comincia a domandarsi se, per caso, non si sia abbeverato per trent’anni a una fonte inquinata e se non sia giunto il momento di accantonare Friedman e gli altri promotori di un’ideologia che ha devastato l’Occidente e svilito la politica fino a toglierle il respiro, con lo scontro fittizio fra comitati d’affari senza identità né alcuna ragione di esistere.

Si avverte, ovunque nel mondo, un disperato bisogno di keynesismo e di tutela dei diritti, di battaglia sociale e di difesa delle classi subalterne. Lo hanno capito persino dalle parti del Fondo Monetario Internazionale mentre in Europa, all’improvviso, sono tornati di moda i sindacati e i luoghi di contrattazione, a dimostrazione che la realtà finisce sempre col prevalere sulle fole e col riaffiorare come un fiume carsico dal sottosuolo, una volta svanita la nebbia dei fraintendimenti e delle bugie.
Come diceva Paolo Sylos Labini (autore di un saggio di grande pregio dedicato alle classi sociali, tuttora estremamente attuale), infatti, “a furia di inseguire il meno peggio, si finisce col dover fare i conti con il peggio del peggio”. Quanto ci manca la pacata lucidità di personaggi così!


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