La Quadriennale di Roma al Palaexpo  

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Il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale torna ai suoi fasti ospitando (13 ottobre 2016 – 8 gennaio 2017) e in parte finanziando  la 16a Quadriennale d’arte dal costo di 2 milioni di euro e dal titolo eloquente preso in prestito da Pier Vittorio Tondelli, Altri tempi, altri miti. Lo scrittore di Correggio nel 1990 riassumeva così il senso del suo libro“Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta”: «Un viaggio per frammenti, reportage, illuminazioni interiori, riflessioni, descrizioni, nella provincia italiana, fra i suoi gruppi teatrali, i suoi artisti, i suoi filmaker, i videoartisti… la fauna trend che da Pordenone a Lecce, da Udine a Napoli, ha contribuito a rivestire quegli stessi anni Ottanta, vacui e superficiali in apparenza, di contenuti e sperimentazioni, al punto da proporre, come capitale morale del decennio, non più una città, ma l’intera provincia italiana».

Viene dunque formalmente evocata un’attenzione  alle periferie (una delle sezioni ha nome ‘Periferiche’) con un filo rosso che lega le 150 opere dei 99 espositori, raggruppati dagli undici curatori in dieci sezioni a tema. Il proposito è di ricomporre in un’unica galassia le costellazioni artistiche fuori orbita, disperse, frammentarie di un’Italia non più monocentrica. Alla base alita un evidente spirito conciliatorio, figurato addirittura in un’azione teatrale: all’anteprima, in piedi su un podio provvisorio posto al centro della ‘rotonda’, l’attore Ninetto Davoli in impeccabile smoking, scarpe luccicanti di vernice e chioma candida, accoglieva  con inchini, baciamano alle signore, abbracci e baci, gli intervenuti impazienti di salire accanto a lui tra gli applausi del pubblico. Ninetto, già ragazzo di vita, impersonava un surreale connubio tra Totò e Pasolini: ulteriore ammiccamento alle periferie rivestite a festa per l’occasione? Ne avremo la riprova venerdì 28 ottobre giorno delle premiazioni: 20.000 euro per il vincitore assoluto e 15.000 per un under 35 (consacrato da Illy Caffè).

L’euforia non  manca,  l’eccitazione è alle stelle. Al visitatore si consiglia di scegliere un percorso spontaneo, senza indicazioni imposte, seguendo ciò che più lo attrae.

Nella sezione I would prefere not/ Preferirei di no i curatori in tandem Simone Ciglia e Luigia Leonardelli adottano la celebre risposta dello scrivano Bartleby di Herman Melville, il quale con quel diniego si sottrae progressivamente a ogni richiesta del suo capufficio fino a non lavorare più, fino a negarsi a ogni impegno accettando le estreme conseguenze di tale rifiuto. Bartleby usato come metafora degli artisti che  preferiscono una posizione defilata, appartata, marginale, preferibilmente precaria, in sintonia con la nostra società. E le loro opere sono una mimesi di tale sentimento dominante. Ehi, voi! –  ventidue artisti sotto l’ala di Michele D’Aurizio – punta al contrario al narcisismo quotidiano, a un petulante presenzialismo da social network, da bambini viziati che pretendono costante attenzione. I più si rifugiano in una ritrattistica autoreferenziale, da intimità domestica, esponendo magari, come Francesco Nazardo la propria ragazza in mutande, Chiara, con le grazie distrattamente esposte dal tessuto trasparente. La democrazia in America annovera sei artisti guidati da Luigi Fassi, che riflettono sull’opera omonima di Alexis de Tocqueville, ma il pre/testo appare intellettualistico e il testo (dell’arte) arranca, lasciandoci in una condizione sospesa. Come accade anche con De rerum rurale, un focus sui frutti della terra e sulla disperazione di chi la coltiva, propugnato da Matteo Lucchetti, con opere, aprite bene le orecchie: “che prendono vita da ricerche concettuali sull’analisi e la decostruzione delle regole che danno forma giuridica agli spazi che abitiamo, e che influiscono sulle nostre condotte quotidiane”.  Se non vi lasciate scoraggiare da questo assalto verbale vi imbatterete in The Great Sleeper di Danilo Correale, visivamente suggestivo, a patto di ignorare il bugiardino: “L’opera si concentra sull’elemento biopolitico del sonno, come ultima frontiera del controllo produttivo globale”.

Più fantasioso il materiale creativo di Cyphoria, termine composto da cyber e disphoria, tecno artificialità e disagio mentale. Il padiglione, in cui si sviluppa maggiormente l’immaginazione, è attraente per l’estrosità, per la bizzarria degli artisti chiamati a raccolta. Federico Solmi su due grandi schermi led circondati da cornici iperbaroccheggianti, mette in scena tra disegno animato e fondali da videogiochi l’avanzata trionfale del potente di turno, da Giulio Cesare in su. Kamilia Kard sistema dentro morbidi manicotti caramellosi, Candy Cuddles, tre palpitanti sessi femminili, tre fighe coccolate. Simone Monsi  in Transparent Word Banners, allineando caratteri alfabetici in perspex attraversati dalla luce, proietta sul muro frasi di (non)senso compiuto, echeggiamenti da cybernauti: “Why so alone?” “Cried a lot in my dreams last night” “Things are getting bad again”. Come scrive il curatore Domenico Quaranta: “Molti artisti in mostra sembrano accomunati da una spasmodica ricerca di senso in un presente che non consente lo sviluppo di una narrazione coerente del reale. Che si concentrino su temi sociopolitici o privati, o su questioni più formali, avanzano a tentoni nel disordine della contemporaneità”.

Il pensiero liquido dominante, teorizzato dal filosofo polacco Zygmunt Bauman, sembra assumere plastica evidenza; mai l’assenza di ogni riferimento stabile si traduce così perfettamente in una impossibile definizione del sé e dell’altro da sé.

Nei padiglioni della Quadriennale si incontra lo stato dell’arte in magmatico ribollire.
C’è l’artista seduto a terra in mezzo a un mare cartaceo di personaggi storici eccellenti ritagliati a fil di forbici da tomi ponderosi, e usati alla stregua di figurine prive di peso e identità.   Un modello vestito da soldato in tuta mimetica e scarponi carrarmato, se la dorme beato,  disteso e quasi invisibile, su un divano ricoperto del medesimo tessuto militare.
Ci sono box di legno con le pareti ricoperte da schermi su cui le immagini a scorrimento rapido si iterano senza mai fermarsi, o sussultano in strappi agonici. Visioni stravolte, fuori controllo, rigurgitate da una moviola impazzita.

Le istallazioni superano numericamente le opere bidimensionali, la manipolazione fotografica ha praticamente annientato la proposta pittorica. L’apparato tecnologico, multimediale, predomina e non solo nella fantasia creativa. In una lignea scatola acustica si viene sommersi da suoni disarticolati.

Schermi piatti sistemati sul pavimento uno contro l’altro a V, a tetto di casa, vanno consultati stendendosi a terra e infilando la testa nel breve spazio frapposto. Sono patchwork esistenziali di un mal/essere opprimente. Forse l’immagine più pertinente è quella dei due ampi specchi a parete concepiti da Alberto Garuppi perché il visitatore vi si rifletta con espressione stolida, disorientata, mentre alle proprie spalle si spalanca l’ambiente di cui è venuto a integrarsi inconsapevolmente. Il titolo: Stanza di soggiorno.

Ci sono giochi d’identità: “Self portrait as Marlene Dietrich”, di Francesco Vezzoli; o di senso: l’insegna al neon NOPE al posto di open, di Clair Fontaine, dove il significato si è perso per strada.
Ci sono due manichini di sapone e acciaio, di Davide Stucchi, figure maschili stese prone sul pavimento come reperti di una eruzione vulcanica.
Ci sono mappe cifrate di una Orestiade Italiana (a riverbero di quella africana di PPP).
Ci sono immagini rarefatte, e indecifrabili graffiti su vetro (Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti).
Ci sono frammenti di un mondo sconosciuto e inconoscibile  (Lo stato delle cose, a cura di Marta Papini)
Ci sono materiali riciclati, o presunti tali (La seconda volta di Cristiana Perrella).

Alcune trovate possiedono un sorprendente guizzo creativo:  Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia) di Francesco Vezzoli. O la sagace intuizione di Lara Favaretto di ricoprire con un velario di fili di lana rossi le umili croste del mercatino delle pulci (032-212 Dipinti trovati, lana).

C’è un macabro scherzo botticelliano di Kamilla Kard,  My Love Is So Religious.
C’è il possente Laocoon di Quaiola, in marmo bianco polverizzato.
C’è persino SIM SALA BIM di Giulia Piscitelli, realizzato con “Coperta di lana, zucchero” in cui il classico copriletto all’uncinetto, multicolore, assume la forma di una rigida culla o forse di un sarcofago.

Nel secondo decennio del nuovo Millennio gli artisti si interrogano. Troppo. Troppe parole accompagnano le opere come una salmodiante processione, un funereo corteo.  Ma sfogliando le 270 pagine di catalogo di ottima grafica, ben stampato e  ben rilegato, è possibile soffermarsi su ogni possibile spiegazione, riflettendo a mente più fredda sulla domanda cruciale: dove sta andando l’arte? Forse come ipotizza Kamilia Kard, verso l’illustrazione di “Un disagio tutto contemporaneo: il senso di vertigine prodotto da un mondo in corsa perenne, da un mare di informazioni fruite in uno stato di infinite scrolling, da una instabilità eretta a sistema politico, economico e sociale”..

Difficile azzardare un messaggio di ottimismo. Sembrerebbe più appropriato riadattare all’uopo una celebre battuta di Woody Allen: “Dio è morto, e anche l’arte non si sente troppo bene”.


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