Celebrazione a Rimini del Casanova di Fellini. La commemorazione del regista a 23 anni dalla scomparsa

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«Mi sono messo in testa di raccontare la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un “italiano” imprigionato nel ventre della madre, sepolto là dentro a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto, in un mondo privo di emozioni, abitato solo da forme che si configurano in volumi, prospettive scandite con raggelante, ipnotica iterazione. Vuote forme che si compongono e si scompongono, un fascino da acquario, uno smemoramento da profondità marina, dove tutto è completamente appiattito, sconosciuto, perché non c’è penetrazione, dimestichezza umana.

Un film astratto e informale sulla “non vita”. Non ci sono personaggi né situazioni, non ci sono premesse né sviluppi né catarsi, un balletto meccanico, frenetico e senza scopo, da museo delle cere elettricizzato. Casanova -Pinocchio. Disperatamente mi sono aggrappato a questa “vertigine da vuoto” come all’unico punto di riferimento per raccontare Casanova e la sua inesistente vita. Quest’occhio vitreo che si lascia scorrere sulla realtà – e trapassare, cancellare da essa – senza intervenire con un giudizio, senza interpretarla con sentimento, mi è sembrato emblematico della drammatica, esuberante inerzia con cui oggi ci si lascia vivere»

Fellini parlava così nel ’76 del film capolavoro sul leggendario amatore veneziano che lunedì 31 ottobre  viene celebrato a Rimini, a 40 anni dalla prima uscita, per commemorare allo stesso tempo la scomparsa di Federico Fellini avvenuta ventitré anni, fa l’ultimo giorno di ottobre nel 1993.

Marco Leonetti, direttore della Cineteca riminese, ha lanciato alcune iniziative per ricordare i due anniversari: un miniconvegno sul Fellini Casanova organizzato insieme all’Università di Bologna; una esposizione presso il Museo della Città di reperti, fotografie, disegni e rari documenti televisivi; e a conclusione dei lavori una mia testimonianza sulla lavorazione del film alla quale parteciperà anche Leda Lojodice, la danzatrice che interpretò il personaggio indimenticabile della ‘bambola meccanica’, una delle più inquietanti e affascinanti  invenzioni cinematografiche dell’artista riminese. Infine la sera del 31 ottobre,  alle 20.30, verrà proiettata in Cineteca l’ultima copia ‘restaurata’ del Casanova; il quale, pur rappresentando un apice della creatività del Maestro, non fu accolto con il dovuto entusiasmo dal pubblico che si aspettava, considerato il tema, un film erotico o addirittura un kamasutra alla veneziana. La pellicola, pur trasgressiva, era avvolta da un sentimento crepuscolare, elegiaco, e dietro la mirabile costruzione figurativa – luministica e scenografica – non riusciva a celare una vena vagamente funerea.

Federico aveva 56 anni quando si accostò per la prima volta all’ Histoire de ma vie di Giacomo Casanova. Si inoltrava in una stagione critica della sua esistenza, vedeva approssimarsi la cupa soglia dei sessant’anni, ne temeva le conseguenze, l’inevitabile caduta di energie, specialmente ‘virili’.  Aveva intuito che avrebbe dovuto cominciare a fare i conti con un mutamento psicofisico che lo riguardava da vicino, come nelle età precedenti non era mai avvenuto. Ripeteva spesso: “Fino a oggi ho vissuto un’unica, lunga stagione, indefinita e immutabile – vent’anni? trenta? – non mi ero mai preoccupato degli anni che passavano, indugiando in una età indistinta, sempre uguale. Adesso che si avvicinano i sessanta, avverto improvvisamente che la festa sta finendo, che si apre un nuovo capitolo, una diversa condizione a cui non mi sento preparato.”

Federico usciva dal successo trionfale di Amarcord che gli aveva assicurato il quarto Premio Oscar.

Stava girando un po’ a vuoto e, tentato – ma poco convinto – dalla proposta di Dino De Laurentiis di tradurre in un film i Memoires del seduttore veneziano, s’era lasciato sfuggire un incauto assenso, fra il serio e il faceto, per non dispiacere l’amico produttore insieme al quale aveva conquistato i due suoi primi premi Oscar con La Strada e Le Notti di Cabiria. Però era istintivamente sospettoso del soggetto e poco portato ad apprezzare quel personaggio vanesio così affannato dietro un vortice di avventure amorose che a lui apparivano tristi, vuote, meccaniche e persino un po’ lugubri. “Noiose – ripeteva – come la lettura dell’elenco telefonico”.

La preparazione del Casanova avrebbe dovuto avere inizio già nell’estate del 1973. Ma Fellini e De Laurentiis avendo una contrastante concezione sull’impostazione del film, non riuscivano a trovare un accordo riguardo all’attore protagonista. Il tycoon napoletano avrebbe voluto scritturarlo tra i nomi di maggior richiamo dello star system hollywoodiano: Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro, Jack Nicholson, Robert Redford. I loro punti di vista erano inconciliabili, al punto che De Laurentiis si ritirò dalla partita. E l’estate successiva, nel luglio del ’74, il progetto passò nelle mani di Andrea Rizzoli (figlio del grande Angelo) che firmò disinvoltamente il contratto tra una immersione e l’altra nella piscina della sua villa di Cap Ferrat. Con un preventivo di circa 4 miliardi di lire, l’organizzatore generale Clemente Fracassi pianificò l’inizio delle riprese al successivo ottobre, e l’uscita del film esattamente un anno dopo, nell’ottobre del ’75.  Fellini, come sua consuetudine, escluse ogni ripresa dal vero e decise di girare l’intera pellicola a Cinecittà, ricostruendo in teatro di posa persino la laguna veneziana. Sennonché in gennaio, a causa del lievitare dei costi rispetto al budget stabilito, anche Rizzoli diede forfait.

Fellini che era ancora alla ricerca di una chiave figurativa con cui affrontare l’ Histoire de ma vie, decise di riempire la momentanea disoccupazione avviando nell’inverno del 1975 una specie di inchiesta sul campo, un film di backstage prodotto dalla Cinemoon di Lamberto Pippia. E fedele alla sua radicata convinzione secondo la quale  “qualsiasi regista dovrebbe passare dal giornalismo prima di mettere piede su un  set” mi affidò l’incarico di svolgere insieme a Liliana Betti un’indagine sul campo per capire come l’archetipo di Casanova fosse sopravvissuto attraverso tre secoli nella cultura e nei cromosomi degli italiani. Avremmo dovuto ricercarne le tracce endemiche  intervistando e portando in scena, da un lato, i più celebri latin lovers dell’aggiornato ‘gallismo’ nazionale, e   sollecitando dall’altro il giudizio di studiosi ed esperti del settore, letterati, filosofi,  psicanalisti, sessuologi.  Prese così forma lo special “E il Casanova di Fellini?” (ripresentato a Rimini nel corso del convegno) co-prodotto dai servizi cinematografici della RAI, presieduti da Paolo di Valmarana, e trasmesso in primavera dall’unico canale televisivo allora esistente.

Nel frattempo ad Andrea Rizzoli era subentrato Alberto Grimaldi della PEA che fissò un tetto di spesa di 5 miliardi, e concordò con Fellini un protagonista di lingua inglese, individuato contro ogni aspettativa nel canadese Donald Sutherland. E fu Kubrick, interpellato in amicizia da Fellini, che suggerì al collega di affidare i dialoghi in inglese a Anthony Burgess, l’autore di Arancia Meccanica; il quale successivamente affiancò il regista anche per  l’edizione britannica del film (doppiaggio e  sincronizzazione) che venne realizzata a Londra.

La lavorazione iniziò il 21 luglio con una previsione di 21 settimane di riprese. In quella prima settimana, il 26 luglio 1975, dopo una serie di minacciosissimi messaggi onirici, Fellini annota nel Libro dei Sogni una visitazione notturna che indicava una evidente riconciliazione nei confronti del Casanova: si trova nel giardino di Villa Elia a via Archimede, circondato dai tecnici della troupe e collaboratori del film. Arrivano delle automobiline minuscole, quasi dei giocattoli, senza nessuno al volante. Federico si piega a terra e domanda: “Siete forse i marziani?” Un alieno, che è in tutto simile a un uomo, con i capelli rossi, lo fa stendere bocconi, compie alcuni gesti ritualistici, e il regista si sente invadere da un fluido che gli trasmette questa notizia: “Non c’è nulla da temere.” Giulietta che sta pregando poco discosta con un rosario fra le mani, mormora: “E’ quello che ho sempre pensato e detto anch’io.”

In realtà le traversie non sono ancora finite. Ad agosto alcune scatole del negativo già impressionato vengono rubate dallo stabilimento di sviluppo e stampa di Cinecittà, con relativa richiesta di riscatto. A dicembre, superati i limiti economici fissati dal preventivo e slittato in avanti il piano di lavorazione, Grimaldi ferma il film dichiarando perentoriamente alla stampa: “Fellini è peggio di Attila”. A fine gennaio torna la pace  ma, ripianificati tempi e impegno finanziario, si riprende a girare soltanto il 23 marzo, dopo tre mesi di interruzione. Mancano ancora il finale (che nel copione seguiva alla sequenza del castello di Dux) e la lunga scena d’inizio, cioè il Carnevale sul Canal Grande, con l’apparizione e lo sprofondamento nelle acque lagunari della gigantesca testa di Venusia.

Il 10 maggio del 1976 il Casanova è concluso; ma ci vorranno ancora sette mesi di postproduzione perché possa apparire sullo schermo, il 12 dicembre 1976.

Peppino Rotunno direttore della fotografia e Danilo Donati autore di scene e costumi avevano affiancato l’autore con una dedizione incondizionata, rivisitando per la sua visionarietà forme, luci e colori della pittura del Settecento, da Hogarth a Gainsborough, da Wattau a Chodowieck, a Francesco Guardi, al Canaletto.

Una delle sequenze più suggestive del film, l’incontro di Giacomo Casanova con la madre nel Teatro di Dresda, fu girata alla luce di imponenti lampadari a candela, e sembra quasi di poter percepire l’odore stesso della cera. Danilo Donati, che era stato chiamato da Stanley Kubrick per collaborare al Barry Lyndon, aveva rinunciato all’allettante proposta pur di restare accanto a Federico, e ottenne il suo secondo Premio Oscar, l’Academy Award for Best Costume Design.

Federico, sul ciglio dei suoi sessant’anni,  aveva utilizzato il Cavaliere di Seingalt per compiere una spericolata incursione esistenziale, cupa e dolcemente tossica, su uno stereotipo maschile venato di inconfondibili tracce autobiografiche. Un racconto che – come qualcuno ricorderà – si conclude nella laguna di Venezia, trasformata in una compatta lastra di ghiaccio, su cui il giovane Giacomo danza al vibrante martellio della spinetta, così simile a un carillon, stringendo rapito tra le braccia una bambola meccanica. Un’opera d’arte impareggiabile, oggi a distanza di quattro decenni osannata in tutto il mondo, che Fellini riassumeva così in una pienamente riconosciuta paternità:

«La faccia stravolta di Sutherland, da cavalluccio marino, il suo sguardo stupito e allarmato, il suo sorriso lieve e stregato mentre gira allacciato alla bambola meccanica in un eterno girotondo, con i mutandoni di lana e il mantello da Dracula, nella Venezia ghiacciata; quell’inesausto Pinocchio che non gliel’ha fatta a diventare un bambino “per bene”, vive ormai la sua vita di fantasma insieme ai Vitelloni, agli Zampanò, allo Sceicco Bianco, a Cabiria e a tutti gli altri personaggi delle mie storie».


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