Carissimo Dario… di multiforme ingegno

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E’ stato irresistibile, beffardo, strabiliante anche in punto di morte: il nostro grande Dario, incapace quasi di respirare, in piena crisi polmonare, eppure- sostiene il medico che lo ha assistito- ancora capace di parlare, affabulare, divagare – gli bastava un filo di voce-  divorando argomenti, conoscenze, personali esperienze che “avevano dell’impressionante, dell’enciclopedico”. Senza che il degente se ne rendesse conto, come se fosse ancora sui praticabili di scena a confabulare e dare lucidi consigli ai suoi compagni d’avventura. Una sorta  di Molière al contrario, che non aveva in uggia la scienza di Ippocrate, e che a cerusici e infermieri amava rivolgersi con amabilità, confidenziale rispetto, nessun cedimento alla consapevolezza di essere giunto al suo terminal di finecorsa.

Uno sghignazzo pure alla morte? Non credo. Dopo la scomparsa della compagna Franca Rame, anche Dario aveva imparato ad averne rispetto, distacco, distanza di sicurezza.
Trovando negli affetti più intimi (il figlio, la nipote) sostegno e carburante per continuare ad essere solerte – “sino all’ultimo respiro”?- nei doveri che la vita pubblica ed intellettiva ‘esigeva’ a quest’uomo di novant’anni,  le cui opere, iniziative, realizzazioni avevano il marchio rinascimentale di quel ‘multiforme ingegno ’  non più rintracciabile in epoca di specializzazioni e compartimenti stagni, condotti sino alle estreme conseguenze: l’esclusione del ‘non sapere’, del top secret, dell’abisso fra nativi digitali e il resto dei viventi.

Resta imponente, impressionante, quasi soggiogante il corpus drammaturgico dell’artista, nel suo un centinaio di testi teatrali, che gli valse (nel 1997, dopo una prima candidatura risalente al 1975) il tanto contrastato Premio Nobel per la Letteratura e la conseguente consacrazione internazionale: con opportunità di lavoro, consulenze, lezioni, supervisioni che non ebbero più confine di lingua e geografia.    Ulteriore paradosso di un autore che (come attesta l’artiglieria dei suoi ‘grammelot’) nutriva, di suo,  una natura basica, una struttura linguistico-sperimentale (sconvolta, disarticolata) affluente dai nei mille dialetti, accenti, sonorità della tradizione italiana – a partire dalla sempre amata (studiata e ristudiata) commedia dell’arte. Riflessa e corroborata da quella particolare fascinazione che s’era impossessata di Dario   dopo la giovanile  scoperta delll’universo del  Ruzante, e della successiva ‘indagine’ svolta fra ciò che restava (di riesumabile, di riabilitabile) dei secoli degli zanni e dei giullari.

Con una precisazione storica a questo punto imprescindibile: l’appartenenza di quelle maschere ad uno sperduto universo che, più di ogni altro, aveva saputo contaminare, arricchire, far scintillare il meglio della cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’ (classificazioni tuttavia di comodo) derivante dalla tradizione medioevale.   Per quel tanto che della cultura trobadorica e della ‘chanson de geste’ (di origine transalpina) s’era poi ingigantito a contatto con il mecenatismo, l’incitamento, il crogiolo delle lettere e delle arti fiorito in Sicilia (intorno al 1200) alla corte di Federico II.    Liddove il ‘teatro di narrazione’ (o quello che adesso celebriamo tale, plaudendo a  Baliani, Celestini, Paolini) ebbe inizio mediante il progressivo intersecarsi degli artisti di corte fra giullari- interpreti ed esecutori dal guizzo fescennino- e trovatori – in genere, intellettuali, letterati, poeti dall’eloquio elegante e laudativo, specie all’indirizzo di aristocratiche e damigelle d’onore.

Strano a dirsi: Dario Fo non fu che il prosecutore, consapevole, di una genìa di girovaghi e  ospiti di corte iniziata con Ciullo D’Alcamo (e il suo “Contrasto”), Ruggeri Apugliese (e il ciclo dei “Vanti”), Matazone di Caligano (autore del “Detto dei villani”): quando all’intrattenitore di riguardo era concesso incantare le folle ed i notabili graditi al sovrano, con i prodigi della fantasia ‘al potere’ e del sapere sconfinato (anche a costo di sperticarsi in “frottole e visioni”, secondo una metodologia che durerà almeno sino ai poemi di Ludovico Arisosto, ma io azzarderei anche Borges e il misconosciuto Cavazoni).

Ulteriore paradosso per un artista come Dario che, con il mutare dei secoli, aveva impiegato ogni sua energia per riscattarsi da ogni forma di potere e sudditanza, ovvero dimostrare quanto il Re sia nudo (e crudo) e che il ruolo dell’interprete “ha da essere di parte”, ma da una sola, quella degli oppressi, dei derelitti, degli emarginati – sino all’ingiuria della follia e della tentata ‘dannazione di memoria’ (come nel caso di Campana, Artaud, Alda Merini)

Quante vite ha vissuto Dario, tra palcoscenico, studio di pittura, responsabilità di impresario  e  trasferte all’estero (ove tutti lo reclamavano senza mai traduzione)? “Una più straordinaria dell’altra, una dentro l’altra, riflesse come in un gioco di specchi capace di moltiplicare il tempo e le storie” diceva di se stesso, ancora incredulo  di quanta esagerata fortuna avesse accudito  “quel figlio smunto, indisciplinato, stravagante d’un povero capostazione del varesotto che tremava all’idea di immaginarlo a Milano, preda di una città per soli cummenda “

Tutto andò invece per il verso giusto, specie dopo l’incontro con la bellissima Franca (“mai creduto che mi desse retta”), che il teatro e lo spettacolo lo aveva nel sangue, e bene in testa,  per tradizione familiare e personale intelligenza. Tra gli  anni 50 e 60, nascono così i primi copioni del “teatro comico” e debitamente surreale (nel senso più stralunato, derisorio e meneghino ancora possibile), recitati tra mille peripezie logistiche ed economiche: “Gli Arcangeli non giocano a flipper”, “Chi ruba un piede è fortunato in amore”, “La signora è da buttare”, tutte visioni di un’Italietta svenevole e illusoria che già deragliava dai ‘fabulosi’ anni del boom ed affluiva, sera dopo sera, nella piccola berlina del Derby Club, ove già si esibivano Gaber, Jannacci, i Gufi, Franco Nebbia, Beppe Viola e persino Umberto Eco.

Seguì  indubbiamente il sogno (con relativi ‘sghei’) della popolarità televisiva e l’intoppo di   “Canzonissima” del ‘62 che  costò a Dario e Franca la messa al bando per 14 anni dalla Rai democristiana. Ma già nel nel ’69 è tutto un deflagrare del “Mistero Buffo” (alla storica Casina Liberty) in cui  l’autore recupera, come spiegavamo all’inizio, la lezione dei fabulatori, dei cantastorie, reinventando, tra sacro e profano, sberleffi e commozione, “le storie della Bibbia e dei Vangeli, di papi tronfi e di villani sagaci”. Cifra stilistica (riduttivo definirla anticlericale) che resterà immutata  sino alle ultime performance dedicate a Giotto, San Francesco, Leonardo e altri ingegni   perlustrati sino ai loro più intimi aneliti.

Con quella vis polemico- dissacrante  che sta alla base di tutto un itinerario di sberleffo e denuncia civile, che ha inizio con    “Morte accidentale di un anarchico”  (sulla ‘misteriosa’ fine dell’anarchico Pinelli) e con  “Il Fanfani rapito”, per poi proseguire con  “Non si paga non si paga”, “Pum pum! Chi è? La polizia”, “Tutta casa, letto, chiesa”,  “Clacson, trombette e pernacchi”.  Per  un susseguirsi di cachinni e satira al vetriolo (niente inibizioni, autocensure, servo encomio, “altrimenti è tutto uno sfottò vicendevole”) che troverà l’anziano maestro  “disponibile  a trasformare ogni imprevisto in una nuova farsa”. Come farà a tempo debito, e traendone immenso gusto, all’indirizzo del  suo bersaglio preferito, il Cav. Berlusconi Silvio (oggi disarcionato?), prima ridotto a feroce nanerottolo in “Ubu Bas”  (omaggio alla ‘patafisica’ e al celebre personaggio di Jarry), quindi trasformato in “Anomalo bicefalo” come una specie di Frankenstein con il corpo di Silvio e il cervello di Putin.  Esemplari di un bestiario umano ancora contundente, di cui Fo sapeva metterci in guardia a suo modo: persuasivo e allarmato, sinchè una risata “non li seppellirà” (quando?)


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