Terrorismo, un corto dal carcere per raccontare la radicalizzazione

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“Naufragio con spettatore” arriva da Rebibbia, vince il “Premio MigrArti” e ottiene la menzione speciale della Giuria al Festival di Venezia. E’ prodotto dal Centro studi Enrico Maria Salerno, con la regia di Fabio Cavalli

ROMA – Gli occhi fissi sulla macchina da presa, per raccontare in 15 minuti l’inferno della radicalizzazione e sottolineare, una volta di più, che l’arte e la cultura restano le armi più efficaci contro la violenza e il terrorismo. Molto più di qualsiasi muro o sbarramento.
Si chiama “Naufragio con spettatore”, arriva dal carcere, ed è il nuovo cortometraggio prodotto da Laura Andreini Salerno per “La Ribalta – Centro Studi Enrico Maria Salerno”, in collaborazione con il ministero dei Beni e delle Attività culturali e Turismo.
Regia, sceneggiatura e soggetto sono di Fabio Cavalli, attore, regista e co-produttore di ‘Cesare deve morire’ (Orso d’Oro a Berlino nel 2011), direttore del laboratorio di teatro che ispirò i fratelli Taviani.

Realizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno, che da 15 anni diffonde e crea opere teatrali e cinematografiche di prestigio internazionale con i detenuti  del carcere romano, “Naufragio con spettatore” ha già incassato un riconoscimento importante: vincitore del Progetto MigrArti 2016 del Mibact – Direzione Generale Cinema, è stato selezionato alla 73ma Mostra internazionale del Cinema di Venezia – Sezione Premio MigrArti 2016 ottenendo la menzione speciale della Giuria. E sarà proiettato nel corso di un seminario sul terrorismo internazionale in programma a Roma a dicembre.

“Nelle nostre carceri gli islamici sono circa il 15 per cento, più o meno 6 mila uomini. Non è facile per loro adattarsi in un posto come questo, sono come naufraghi. Non è facile soprattutto per i detenuti che stanno qui, convivere con loro, e anche per noi agenti non è semplice. Bisogna cercare… di capirsi”. L’assistente di polizia penitenziaria che dà voce al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si chiama Sandro Pepe e non è stato scelto a caso: “Diciamo che faccio un po’ di mediazione culturale: nel mio Dna c’è un bel po’ di sangue africano”.

Nel corto scorrono le ore della quotidianità rinchiusa, di una solitudine che ha il sapore acre della ruggine e della lontananza dagli affetti. Di famiglie che vivono dall’altra parte del Mediterraneo, di cognomi che non vengono mai chiamati a colloquio.
“Poi c’è il problema della lingua – spiega Pepe -. All’inizio i detenuti di lingua araba tendono a stare isolati tra di loro. Se la detenzione è breve nemmeno ci provano a cercare un contatto: stanno buttati tutto il giorno sul letto. Chi ti insulta, chi prega, se ti dicono una parolaccia nemmeno la capisci”.

I volti diventano disegni, da uno schizzo affiora uno sguardo. Le pennellate del regista si accavallano ai sogni che Nadil, protagonista del corto, ha messo su carta o “cartoncino, perché qui in carcere è impossibile trovare tele e si disegna su tutto”.
Nadil (interpretato da Pietro Lo Faro) e la sua passione per il disegno: il suo amore per l’arte che lo porterà a rifiutare l’estremismo e le chiamate dei compagni di detenzione di Rossano Calabro, dove è recluso “il volto feroce dell’estremismo”.
“Questo breve film – sottolinea il regista – è dedicato alla sua avventura e all’epopea di tutti gli uomini partiti dal Sud del mondo e naufragati in carcere. Come Yassin, giovane detenuto marocchino, che dalla sua cella di Cassino ha composto e cantato lo struggente inno alla luna che accompagna le immagini”.
“Questo è un corto di verità e finzione – prosegue Fabio Cavalli – perché certe verità sono difficili se non impossibili da dire e solo l’arte può mediare in questo abisso che separa le  realtà che ci circondano: ed è quello che faccio in teatro, che ho fatto con ‘Cesare deve morire’. Questo corto, prima parte di una quadrilogia che mi auguro di realizzare, è fatto con interpreti che guardano in macchina e questo ha un significato preciso: come diceva Emanuel Levinass, l’unica possibilità che abbiamo di non condividere il dolore degli altri è voltare la faccia dall’altra parte, non guardarli negli occhi perché se li guardiamo riconosciamo nei loro occhi i nostri, che diventano uno specchio. Il naufragio è quello di chi approda in carcere, di chi attraversa il mare ma anche di ciascuno di noi nella tempesta della vita. Gli spettatori del naufragio siamo noi, che insieme siamo anche naufraghi. Per questo guardare negli occhi Nadil e Yassine è emozionante quanto contemplare nello specchio il nostro disagio di vivere.
Ringrazio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la Giuria del Premio MigrArti e condivido con i miei attori, con i quali lavoro magnificamente, ogni difficoltà e ogni successo”.

La storia. Il problema del proselitismo e reclutamento islamista nelle carceri italiane è stato posto all’ordine del giorno della riflessione politica e culturale negli ultimi tempi. Naufragio con spettatore dà voce a Nadil, un giovane detenuto di origine egiziana di fede mussulmana che ha incontrato in carcere alcuni jihadisti e se n’è tenuto lontano con la forza ed il desiderio di continuare a essere se stesso, senza rinunciare alla sua fede, ma anche senza cedimenti al fanatismo.
Il corto rivela le vite dei naufraghi detenuti, uomini che il naufragio l’hanno conosciuto due volte: la prima come evento concreto, da migranti, nel quale hanno visto morire compagni e fratelli. La seconda volta il naufragio – come metafora – li ha investiti durante l’avventura nella nuova terra: la lotta per la sopravvivenza e l’affermazione di sé; il crimine; la condanna, la pena. Nelle carceri italiane un terzo dei detenuti proviene da mondi lontani. Sono portatori di culture, religioni, abitudini diverse, spesso in conflitto con le nostre. Fuori e dentro. La conoscenza diretta con quegli uomini costringe a soffermarsi sui loro volti e a riconoscerli come specchio dei nostri.

Il teatro di Rebibbia e il Centro Studi Enrico Maria Salerno. Diretto da Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli, il Centro Studi lavora dal 2003 alla promozione delle attività teatrali a Rebibbia, coinvolgendo i cittadini reclusi in un progetto di crescita culturale, artistica e professionale.
Attualmente il progetto accoglie circa 100 detenuti e ne ha coinvolti oltre 600 dall’inizio dell’attività. Il tasso di recidiva fra i detenuti impegnati nelle attività si è drasticamente ridotto sotto il 10 per cento, a testimonianza del potere di trasformazione del sé che l’arte esercita in modo straordinario. Il Teatro di Rebibbia è diventato, negli ultimi anni, una delle principali sale teatrali di Roma per affluenza di pubblico, con oltre 10 mila spettatori (interni ed esterni) nel 2015; con oltre 100 giornate di programmazione fra teatro, musica, cinema, video ed eventi culturali. (Teresa Valiani)

Da redattoresociale


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