Moro, Pertini, Calamandrei e lo spirito della Costituzione

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Non è nostra abitudine né abbiamo la benché minima intenzione di iscrivere questo o quel padre costituente ai comitati per il sì o per il no che stanno sorgendo e si stanno scontrando in questa fastidiosissima campagna referendaria che tutto ha come oggetto fuorché la revisione degli articoli della Costituzione sui quali saremo chiamati ad esprimerci. Preferiamo piuttosto volgere, un po’ leopardianamente, lo sguardo oltre la siepe e confrontarci su ciò che si intravede all’orizzonte, ossia tre anniversari importantissimi: i cento anni dalla nascita di Aldo Moro, i centovent’anni dalla nascita di Pertini e i sessant’anni dalla scomparsa di Piero Calamandrei.

Tre figure diverse per storia, cultura e formazione, accomunate da un’esistenza sostanzialmente travagliata, segnata in maniera indelebile dalla tragedia del fascismo e della guerra e, nel caso di Moro, dalla nota vicenda del rapimento e dell’assassinio ad opera delle Brigate Rosse nel maggio del ’78.  Avendo scelto di riunire queste tre figure, tuttavia, poniamo come filo conduttore di una parte significativa del loro percorso, umano e politico, lo spirito della Costituzione: quello che li animò nel biennio tra il ’46 e il ’48 e nei primi anni della vicenda repubblicana del nostro Paese.

Il cattolico-democratico Moro, il socialista Pertini e il liberale Calamandrei, tutti e tre animati dall’idea di una Carta e di una democrazia fondata sull’inclusione e sul dialogo, sul confronto e sulla capacità di tenere unito il Paese, dal principio basilare che la Costituzione fosse – per dirla con il giurista fiorentino – “il programma politico della Resistenza”, radicata nella nostra storia e nella nostra tradizione culturale, nei nostri valori e nell’eredità di un passato glorioso che vive nei princìpi fondamentali e in tutta la prima parte di un testo meraviglioso per complessità filosofica e chiarezza di scrittura, nitido, senza dare adito a dubbi interpretativi e in grado di costituire la bussola del nostro stare insieme.

Perché prima di essere uomini politici, Moro, Pertini e Calamandrei erano soprattutto italiani: italiani che avevano conosciuto la barbarie della dittatura e il senso di rabbia, di frustrazione, di paura e di oppressione di un tempo buio e privo di speranza; italiani che, nel caso di Moro, avevano redatto presso l’abbazia di Camaldoli un Codice di princìpi improntati all’umanesimo sociale, di cui furono grandi ispiratori i filosofi francesi Monuier e Maritain, che avrebbe innervato le politiche sul lavoro e i rapporti con i sindacati e con il mondo associativo della DC nei primi tre decenni del dopoguerra. Senza dimenticare l’esperienza devastante di Pertini a Turi, là dove conobbe Antonio Gramsci e maturò il convinto rifiuto di ogni forma di fascismo, arrivando a considerarlo un crimine disumano al quale opporsi con forza sotto qualunque forma esso fosse riaffiorato.

Infine Calamandrei: il liberale che insegnava ai giovani il significato profondo della Carta costituzionale e li induceva a riflettere sull’importanza della scuola pubblica, ossia di una delle più grandi conquiste dello Stato democratico; ma anche il giurista che difese Danilo Dolci ai tempi delle manifestazioni contadine e bracciantili nella Sicilia disperata della mafia e del latifondo, alleati della politica peggiore e capaci di riciclarsi dal fascismo all’ala più corrotta, contaminata e squallida di un partito del potere che da quelle parti non ha avuto mai davvero un colore, pur essendosi appoggiato spesso a democristiani senza scrupoli per fare affari e continuare ad arricchirsi, sfregiando e devastando una regione bellissima ma, purtroppo, abbandonata a se stessa.

Ad accomunare questi tre uomini c’era, più che mai, il rifiuto di ogni forma di ingiustizia, l’idea che la democrazia italiana fosse fragile e incompiuta, che avesse bisogno di aprirsi, di respirare con almeno due polmoni e di superare la “conventio ad excludendum” che impediva a una forza essenziale quale il PCI di partecipare attivamente al governo del Paese. Un argomento che ha coinvolto meno Calamandrei, scomparso nel ’56 all’età di 67 anni, ma che ha visto Moro e Pertini in prima fila, al punto che ci torna in mente il bellissimo passaggio del primo discorso ufficiale da capo dello Stato del presidente partigiano alla Camera, quello in cui ammette pubblicamente che, se fosse stato ancora vivo, Moro e non lui avrebbe parlato da quello scranno.

Perché lo spirito della Costituzione, in fondo, è soprattutto questo: sapersi tendere la mano fra avversari, saper cogliere la ricchezza presente negli altri, rifiutare ogni concezione totalitaria, considerarsi sempre una parte e non il tutto, ascoltare e dialogare, rispettarsi nella diversità d’opinioni, stimarsi nel dissenso e, talvolta, anche nel confronto aspro e nello scontro. È saper accettare un potere limitato e dotato delle adeguate garanzie, di quel sistema di pesi e contrappesi che affiora nel dibattito pubblico europeo grazie a Montesquieu e si consolida nella seconda metà del Ventesimo secolo, quando le costituzioni iniziarono ad essere considerate conquiste inalienabili del popolo sovrano e non gentili concessioni di un qualche monarca.

Scriveva Calamandrei pochi mesi prima di morire: “Andiamo dunque avanti, lavorando affinché ogni italiano, fino all’ultimo pescatore di Partinico, sia messo in condizione di provare la soddisfatta fierezza di sentirsi una persona umana: e, serbando ognuno dentro il cuore la propria fede nelle mete ultime, camminiamo intanto sulla strada che, senza tradir quella fede, ci siamo impegnati a percorrere in schiera. Che cosa è la vita, se non un breve tratto di strada da percorrere cogli altri viandanti? Ogni tanto, durante il cammino, uno si accascia sulla proda, e scompare. Ma gli altri non se ne accorgono: guardano in avanti e continuano il loro viaggio.

Verso quali mete ultime ci porta il viaggio? La sua risposta ognuno la porta chiusa nel cuore: ma intanto, senza rinnegare questa risposta, continuiamo, finché si può, a camminare insieme”.

E la Costituzione è stata scritta così, tanto nella prima quanto nella seconda parte, non considerandola immutabile ma ritenendola un baluardo contro ogni nuova pulsione autoritaria, sotto qualunque forma essa dovesse manifestarsi, per consentire alle generazioni successive, compresa la nostra, di camminare a lungo insieme, sentendosi parte di un medesimo destino.


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