Merkenzande e il baratro dell’incertezza

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Merkel, Renzi e Hollande, per abbreviare Merkenzande, perfetta crasi della loro simbiosi e, purtroppo, anche della loro intrinseca debolezza.

Merkenzande, i tre di Ventotene, ritrovatisi sulla portaerei Garibaldi lo scorso 22 agosto per affrontare i delicati problemi che affliggono il Vecchio Continente e scopertisi ancora più fragili di quanto non immaginassero, con i rispettivi paesi in balia di populismi d’ogni sorta che ormai non si lasciano scoraggiare più neanche dal buon andamento del PIL. È più che mai il caso della Cancelliera, duramente sconfitta nel suo land, il Meclemburgo-Pomerania, alle regionali di domenica scorsa ma, soprattutto, costretta ad assistere all’umiliante sorpasso ad opera degli anti-europeisti di Alternative für Deutschland, i quali, da quando hanno sostituito lo spento e professorale Bernd Lucke con l’effervescente Frauke Petry, sono decollati, riuscendo nella tragica impresa di superare la CDU della Cancelliera in un land dell’Est sì appannaggio dei socialdemocratici ma nel quale i cristiano-democratici si erano sempre difesi dignitosamente.

Domenica scorsa il crollo e innumerevoli interrogativi, specie a livello internazionale, su come si possa arginare questa marea multicolore la cui unica, grande bandiera è quella del disprezzo, per certi versi persino comprensibile, nei confronti di tutto ciò che ha a che fare con i valori della comunità e della sovranità extra-nazionale.

Nelle altre cancellerie, infatti, l’analisi del voto tedesco è stata la seguente: se i nazionalisti, i nostalgici dei bei tempi andati, della gloria che fu e di una sovranità che oggi, a livello nazionale, non ha più alcun senso sono riusciti ad ottenere un risultato impensabile fino a qualche anno fa persino in un Paese dove il PIL ancora tira, l’economia è solida e la disoccupazione giovanile è relativamente bassa, al pari di quella complessiva, cosa può accadere nelle nostre sgangherate nazioni nelle quali funziona poco o nulla? Un’analisi interessata e scarsamente lungimirante ma comunque indicativa del clima di terrore che si respira pressoché ovunque e, in particolare, in una Francia sconvolta dal terrorismo, dilaniata dalle proprie contraddizioni interne, in guerra con se stessa e con un Partito Socialista ridotto a un campo d’Agramante dalla pessima amministrazione del duo Hollande-Valls e desideroso di affidarsi ad attori nuovi, quali gli ex ministri Montebourg e Macron,  rispettivamente sul versante sinistro e su quello destro del partito.

A nostro giudizio, possono fare ciò che vogliono, inventarsi qualsivoglia candidatura e affidarsi a tutti gli effetti speciali del caso, ma le sorti dei socialisti francesi sono ormai segnate: difficilmente arriveranno al ballottaggio e forse sarà un bene, in quanto è evidente che l’intera nomenclatura di potere che ha retto le sorti di questa compagine nell’ultimo decennio ha fallito miseramente e che solo un’esponente di punta della sinistra, sufficientemente preparata e credibile, quale l’attuale sindaco di Parigi Anne Hidalgo, possa risollevare i destini di una formazione che negli anni in cui è stata al governo ha smarrito l’anima, tradito tutte le promesse elettorali ed è venuta meno alla sua stessa ragione di esistere.

E non va meglio a Matteo Renzi, leggermente rinfrancato dalla tremenda crisi che sta squassando il M5S a Roma ma tutt’altro che al sicuro in caso di un eventuale ballottaggio contro Di Maio o Di Battista, specie se si va a dare un’occhiata ai dati dell’economia e si tiene conto del divorzio sentimentale con una parte significativa del mondo della sinistra che la sua azione di governo ha provocato.

Senza contare la gravità di ciò che sta accadendo oltreoceano, dove Trump pare aver annullato tutto lo svantaggio che aveva nei confronti della Clinton e ora sembra essere addirittura in vantaggio.

Infine, il terribile scenario che si profila in Austria e Ungheria in vista del prossimo 2 ottobre, quando c’è il rischio concreto che dalle parti di Vienna prevalga Hofer e che dalle parti di Budapest venga approvata la linea del governo in un referendum dal vago sapore nazista sulle quote obbligatorie di migranti da accogliere; il tutto corredato dalla spaventosa idea del nuovo governo inglese, emersa in questi giorni, di erigere un muro lungo un chilometro e alto quattro metri a Calais per isolarsi ulteriormente e impedire l’accesso nel Regno Unito dei disperati che si accalcano sull’autostrada situata nei pressi dell’Eurotunnel, nel tentativo di saltare a bordo dei camion e di sfuggire ad un accampamento significativamente ribattezzato “la giungla”.

In pratica, tutti i pilastri dell’Occidente sono in ginocchio, vittime dei loro punti deboli e della loro fragilità che si sta trasformando in una condanna senza appello: gli Stati Uniti con la reazione furiosa al liberismo selvaggio che ha devastato il tessuto sociale, al punto che persino un bancarottiere miliardario, avido e da sempre convinto che la vita non sia altro che un grande reality show può presentarsi come paladino dei ceti sociali messi in ginocchio dalla crisi e dalle politiche seguite negli ultimi trent’anni; la Francia con i suoi servizi segreti fasulli, preda preferita dei terroristi del Califfato ma, al tempo stesso, ostaggio dell’inettitudine di Valls, prima come ministro degli Interni e poi come primo ministro: un paese stremato e in guerra con se stesso che ormai vive nel terrore del prossimo; la Germania con la fisiologica stanchezza che circonda la Cancelliera dopo undici anni ininterrotti di governo e una gestione dei migranti saggia e da statista ma, purtroppo, capace di suscitare le ire dell’ala più conservatrice del suo stesso partito e di generare nelle fasce più deboli della popolazione una paura tale da mescolarsi alla perfezione con il malcontento per i rapporti tutt’altro che idilliaci con gli stati del Mediterraneo, favorendo l’ascesa del populismo d’élite, fautore di una sorta di pericolosissimo pangermanesimo, che ha gonfiato le vele di una sorta di Scelta Civica mista si M5S: una peculiarità tedesca con la quale, tuttavia, da domenica siamo chiamati a fare i conti; e poi l’Italia, dove domina il populismo dal basso del M5S, frutto del malessere sociale, della crescita anemica, delle riforme che non funzionano, delle divisioni generate dal renzismo, dell’indebolimento del PD e dei limiti strutturali atavici del nostro paese. Quattro nazioni, quattro populismi differenti ma complementari, senz’altro destinati a fallire, come in alcuni casi sta già accadendo, ma comunque destinati a modificare per sempre, e in peggio, il dibattito pubblico nel suo complesso.

È la stagione dell’incertezza, dell’imbarbarimento, della follia collettiva e dell’instabilità. E ci spiace dirlo, ma nessun esponente di questo trio, né tanto meno la Clinton negli Stati Uniti, ci sembra in grado di far fronte a un contesto d’emergenza che avrebbe bisogno di una classe dirigente credibile e non logorata da troppi anni di errori e di fallimenti.

P.S. Dedico quest’articolo al professor Ennio Di Nolfo, scomparso all’età di 86 anni al termine di una lunga malattia. Ci mancheranno il suo rigore scientifico, la sua passione civile e politica e, soprattutto, le sue intuizioni nell’analisi del contesto globale, in una stagione nella quale avremmo più che mai bisogno di pensieri lunghi e non di soluzioni affrettate e di risposte inadeguate alla complessità del nostro tempo.


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