L’estate femminile dell’assurdo

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E’ un’estate focalizzata sulle donne, questa: sul loro modo di essere, sulla loro rappresentazione. E’ un’estate calda, soleggiata, che per quanto ci riguarda cerchiamo di vivere con leggerezza e misurata spensieratezza, punteggiata da riflessioni impossibili da evitare.
Ancora non sono state archiviate le polemiche sull’uso del costume da bagno all’islamica, il Burkini, qui in Francia, che già si sposta l’attenzione sullo “Tsniout” (pudore o modestia in ebraico), il costume definito “casto” (dai 45 euro in su), di gran moda quest’anno sulle spiagge israeliane fra le donne che professano la religione con rito ortodosso. La cosiddetta “moda pudica” è diventata un vero business e le stiliste che li disegnano, Mimi Hecht e Mushky Notik, sono diventate in pochissimo tempo delle vere star (il burkini, invece, è opera della stilista australiana di origini libanesi, Aheda Zanetti, e costa in media sui 50/140 euro). Ma poi, la saga del Burkinigate andrà a scemare con l‘arrivo dell’autunno e anche il suo cugino kosher verrà riposto ordinatamente nel cassetto. Cadranno le prime foglie e sulle spiagge resteranno solo gli amanti del mare d’inverno, questa volta sì donne e uomini incappucciati nei loro caldi piumini unisex.

Ma la trovata, tutta italiana, del ministro per la salute Lorenzin, che dopo aver scoperto la gioia della maternità ad oltre 40 anni, vorrebbe estenderla a tutte le donne in età fertile, indifferentemente dalle loro possibilità materiali per mantenere un figlio o dalle proprie scelte esistenziali, ci ha letteralmente sbigottite. Difficile, d‘altronde, calarsi nei panni delle tante precarie, spesso superlaureate, con buona conoscenza delle lingue e specifiche competenze professionali, che si arrabattano in mille mestieri per sopravvivere economicamente, se di mestiere non si è fatto altro che la politica fin dalla giovane età   fino a conquistare lo scranno di ministro della salute.

Certo, poi, l‘appartenenza al partitino alfaniano è stato decisivo insieme alla sua determinazione! Ovviamente, facendo due conti il lauto stipendio da ministro avrà certamente messo in sicurezza il più che legittimo desiderio di maternità “dell’attempata primipara”, con la collaborazione fra l’altro di un compagno assolutamente ben posizionato!

E anche questo non è cosa da poco, vista la scarsità di maschi disponibili a mettere su famiglia, ci confidano amiche e conoscenti single “meno fortunate” di noi. Si fa per dire!  Risulta comunque ridicolo e anche offensivo l’inappropriato poster (in realtà lo sono tutti quelli della campagna istituzionale da 113 mila euro) dei quattro piedi che spuntano dal lenzuolo trattenendo uno “smile”. Certo che il welfare al ministero della salute funziona eccome, visto che è stato prontamente allestito una nursery per permettere all’illustre mamma e ai gemellini di mantenere intatto quel cordone ombelicale fondamentale per favorire una crescita ideale. Esattamente le stesse condizioni di noi donne “normali”, che da decenni ci arrangiamo fra carenze di servizi, discriminazioni nel lavoro, tra tutele legali insufficienti e sproporzioni fra le fatiche del doppio lavoro casalingo: anche questa una mansione che dovrebbe avere un riconoscimento economico da parte dello Stato, così come avviene nei paesi europei più avanzati, se non altro come sgravio fiscale e riconoscimento del quoziente familiare.

Convinta della sua idea “ancien régime” della maternità come dovere sociale proprio l’8 marzo il ministro aveva dichiarato che “la maternità deve tornare ad essere un prestigio sociale e non un disvalore”. In quanto al “prestigio sociale” avremmo molto da obiettare. Fare figli non è certo una moda. L’identità femminile è qualcosa di molto più complesso e dalle infinite sfumature, l’esperienza della maternità per molte di noi che l’hanno desiderata e provata è certamente una cosa bellissima e appagante: ma resta una decisione individuale e non una regola imposta dallo Stato, per farci sentire più o meno femmine e accettate socialmente. Senza contare che è crudele e discriminatorio stigmatizzare le donne che non hanno ancora deciso se e quando restare incinte, come fossero “vuoti a perdere” e, in maniera subliminale, spingerle a tentare tutti i rimedi medicali possibili, pur di riappropriarsi dell’agognato “prestigio sociale”.

Noi alle nostre figlie abbiamo insegnato ben altro. Intanto, a prendersi cura di se stesse e a volersi bene. Poi, di impegnarsi a realizzarsi come persone e di sfuggire a gambe levate all’appuntamento settembrino con un Fertility Day, che sembra l’apoteosi di un D-Day, questa volta però non evocativo di una sbarco di liberazione dall’oppressione nazista, ma piuttosto di un’Ora “X”, di abbandono della libera sessualità per ritornare al trinomio di “Dio, Patria e Famiglia”, quando il corpo delle donne serviva essenzialmente per la proliferazione della specie.

Diventare mamme e stringere fra le braccia un bebè morbido, che emette i primi vagiti di inno alla vita, è un privilegio che auguriamo a tutte, alle nostre amatissime figlie per prime, e ad ogni donna che scelga la maternità consapevolmente, ma a patto che abbia comunque raggiunto i primari obiettivi: dal lavoro, alle tutele sindacali, alle sicurezze assistenziali. Essere madri oggi, ancor più di ieri, in questa emergenza di crisi economica e di mancanza di lavoro è davvero difficile. La maternità deve essere sempre una scelta libera, non importa se non si è più “giovanissime” e “creative” o più avanti nell’età, magari quando questo sacrosanto diritto non richiederà poi tanti sacrifici personali. E poi lo si faccia per se stesse, per un naturale desiderio anche di coppia, e non certo per la collettività e neppure per far rientrare il tasso di natalità italiana nella media europea.

Nel resto d’Europa (Francia, Gran Bretagna, Germania e non solo) la maternità è tutelata fin dalla procreazione e garantita da sostanziosi aiuti economici e strutturali per gli anni a seguire. Fare figli è una scelta aiutata da molti strumenti di welfare, da noi assolutamente sconosciuti o, peggio ancora, ridotti e persino tagliati. In Italia sono solo chimere, alla faccia delle clessidre sul poster, che ti ricordano che hai una scadenza come un vasetto di yogurt, degli ammiccamenti, di faccette più respingenti che convincenti; per non dire poi della libera associazione fra la maternità e l’acqua come “bene comune”. Già la crisi economica ci stritola, non vogliamo sentirci pure vecchie galline buone solo per fare il brodo!


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