Giacinto Facchetti. Non un simbolo ma un esempio

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La scena finale del nostro graphic novel racconta, e non è un caso, l’unica espulsione della carriera di Giacinto Facchetti. Eppure quel cartellino rosso, ingiusto e così tanto umano in una carriera marziana, non è la vera notizia. Colpisce piuttosto la reazione del pubblico: unanime, compatto, in piedi ad applaudire il proprio capitano, disorientato in una situazione insolita, eppure così orgoglioso nella corsa verso il tunnel, fuori dal campo.

In quell’applauso c’è stata adesione, più che tifo: l’asse portante su cui si forma il concetto di popolo. Che, quasi naturalmente, non può fare a meno di scegliere un suo leader, cui affidare sogni e speranze. Una figura di cui essere orgogliosi, in cui riconoscersi: la qualità dei capitani, spesso, è lo specchio di quella di un popolo. Nel calcio, come nella vita, ne esistono di molti tipi diversi: le bandiere, fedeli alla maglia per una vita; i campioni, troppo forti per non essere rappresentativi; i silenziosi, cui basta l’esempio per farsi rispettare; i predestinati, perché onestà, carisma e competenza non passano inosservati. In Facchetti hanno convissuto tutte queste anime, tradotte in quella fascia che quasi gli spettava di diritto: mai sbandierata, sempre leale e costruttiva, disponibile, onesta al limite di una confusione –molto cara ai furbi- con l’ingenuità. E allora è lecito, per un popolo, commuoversi di fronte a quella corsa verso il tunnel. Alzarsi in piedi e applaudire: dietro al Capitano, ci siamo tutti noi.

Spesso i miti del calcio affascinano gli scrittori. Giacinto è stato amatissimo da alcune grandi penne italiane: da giocatore, la classe e l’aspetto scultoreo hanno risvegliato reminiscenze classiche. Per Gianni Brera è diventato Giacinto Magno. Luciano Bianciardi lo elesse ad emblema di un secondo rinascimento italiano, una specie di Garibaldi in maglia azzurra. Per Giovanni Arpino è stato quasi un figlio, uno dei pochissimi a salvarsi, con dignità, dalla figuraccia azzurra a Germania ’74. Di Facchetti resta anche questa profonda eredità culturale, impensabile per le figure, molto più terrene, di chi ha provato -dopo la morte- ad attribuirgli colpe e nefandezze identiche alle proprie.

Giacinto voleva essere un esempio, non un simbolo. I simboli dividono. Gli esempi, no: si possono seguire, accettare, comprende o rifiutare, ma non possono dividere. Dagli esempi possono nascere solo modelli positivi. Sui simboli, invece, si possono costruire steccati, muri, si vincono e si perdono le guerre. Da calciatore prima, da dirigente poi, Facchetti ha inseguito un solo obiettivo: fare del calcio un posto migliore di quello che aveva trovato. Il suo metodo, lo stesso di una vita: lavoro, applicazione, gioco di squadra, rifiuto delle scorciatoie. Anche a costo di sembrare ingenuo. E di consentire che una buona educazione e una certa rettitudine, le doti di un vero hombre vertical, venissero scambiate per mollezza. Facchetti è stato l’esempio perfetto di quello Slow Foot –un calcio buono, pulito e giusto- che in tanti sogniamo di poter tornare a raccontare. Un calcio che non sfugga dall’umanità. Un calcio che, forse non cambierà il mondo, ma che almeno saprà tornare a regalare emozioni e, in qualche caso, anche speranza.
C’è una foto di Marco Ravezzani che racconta Facchetti meglio di tutti. Uno scatto perfino futurista, con Giacinto che corre sulla fascia, il busto perfettamente a fuoco, le gambe invece sfocate, sfumate nella corsa, nel gesto, imprendibili. In quella foto, Giacinto vola. Sfuggente, lontano da una certa miseria. Eterno: da sempre, per sempre, sulla strada giusta.

*Tratto dalla  graphic novel di Paolo Matteo Maggioni “Giacinto Facchetti – Il Rumore non fa gol”, dedicato a Giacinto Facchetti (con D. Barzi e D.Castelluccio, BeccoGiallo editore, Padova, 2016)


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