“Il metodo del coccodrillo” – di Maurizio de Giovanni

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Lo sfondo è una Napoli grigia e umiliata, senza più il glorioso pino marittimo a guardia del golfo, che resiste ormai soltanto nelle cartoline vintage. Niente ‘paese d’ ‘o sole’, niente struggimenti d’amore sfogliatelle, babà, pizza, mandolini e la douceur de vivre. Al contrario, un cielo stizzoso, plumbeo, e una pioggerella insistente che diventa fanghiglia nei vicoli sporchi e congestiona il traffico. Nessun automobilista ha più voglia di spostare gli occhi dal parabrezza in cerca di quel paesaggio celebrato da secoli di retorica che si è stinto in una vita incolore, maltrattata come un vuoto a perdere. In questa cornice di umor nero si apre il sipario sul Commissariato San Gaetano, “nel ventre molle di una città in perenne decomposizione”; entriamo nello stanzone dell’ufficio denunce dove è stato confinato l’ispettore siciliano Giuseppe Lojacono, senza nessuna funzione e la ferrea prescrizione dei superiori di tenersi alla larga da qualsiasi iniziativa investigativa. Un pentito di mafia l’ha indicato come spia di Cosa Nostra in seno alla polizia: bruciato per sempre ad appena quarant’anni e alle spalle un ruolino di servizio di prim’ordine. Sotto il peso di quell’accusa infamante, mai provata, il poliziotto è stato allontanato con  spregio dagli amici, e abbandonato anche dalla moglie, una virago di nome Sonia che da lui vuole  solo i soldi che le spettano e gli proibisce persino di chiamare al telefono o di vedere Marinella, la figlia adorata per la quale lui vive in costante apprensione. Gli stessi colleghi napoletani lo ignorano, sospettosi e arcigni. E nel vacuo e interminabile orario di lavoro Peppuccio è costretto a passare il tempo “giocando a scopa contro il computer”, rimuginando il fiele che ha ingoiato, rifiutando di prestare orecchio ai vaniloqui dell’annoiato sovrintendente Luciano Giuffrè: lenti a fondo di bicchiere e una rassegnazione compiaciuta all’atavica inattività, senza alcuna speranza di riscatto in un ufficio dove transitano perlopiù disturbati o mitomani.

Completamente isolato in una città che non conosce e non ama, l’ispettore siciliano consuma i pasti in una trattoria da quattro soldi e tuttavia così famosa per il suo ragù che ci vengono apposta dal Vomero, da Posillipo, da Chiaia. La proprietaria e cuoca, una donna rigogliosa che serve anche ai tavoli, è attratta dal suo cliente silenzioso del quale, da vera femmina, percepisce i tormenti e apprezza l’aspetto da bel tenebroso, gli occhi neri e vagamente a mandorla dal fascino mediorientale.

Una notte che, per cronica mancanza di personale, Lojacono è comandato di turno al commissariato, in un vicolo poco distante viene compiuto un terribile omicidio: Mirko, un ragazzo di appena diciassette anni, è stato giustiziato con un proiettile alla testa nel cortile di casa, mentre stava chiudendo il lucchetto del motorino. Nonostante il divieto Lojacono è costretto ad accorrere sul posto per i primi riscontri, precedendo la squadra mobile, il commissario Di Vincenzo e la scientifica. Il sostituto procuratore, la dottoressa Laura Piras, una donna giovane e graziosa ma dal carattere intrattabile, raccoglie a caldo i rilievi di Lojacono sulle specifiche del delitto, prima che l’ispettore venga allontanato a brutto muso dal suo capo.

Il ragazzino assassinato è un piccolo corriere della droga, un muschillo come tanti minorenni dei quartieri, e le indagini ufficiali si indirizzano inevitabilmente verso l’ambiente della camorra. Ma trascorrono solo pochi giorni e un’altra adolescente, questa volta una ragazzina dei quartieri alti, viene trovata ammazzata sotto casa: stessa arma, stessi indizi, medesima modalità di azione: appostamento ben studiato e un unico colpo di pistola a distanza ravvicinata. A Napoli cresce l’allarme, il malcontento; si teme la presenza di un serial killer che possa colpire ancora indisturbato, la stampa e le televisioni cavalcano il panico, accusano la polizia di inettitudine. Il magistrato, in aperto contrasto con  i vertici della questura, convoca Lojacono, il solo che dai pochissimi elementi a disposizione ha escluso fin dal primo momento una esecuzione di camorra. Intende sfruttarne le doti intuitive, conoscere più da vicino le sue deduzioni; e decide di utilizzarlo accanto a sé in una indagine parallela. Così a dispetto di colleghi e superiori l’ispettore si trova da un giorno all’altro se non riabilitato quantomeno sottratto al suo ozio forzato e rimesso in pista. La dottoressa Piras ci ha visto giusto, e da quel momento i due ingaggiano una corsa contro il tempo: una partita di scacchi all’ultima mossa tra l’ignoto, pericolosissimo assassino e Lojacono, sua controparte, il quale quasi per empatia è riuscito a entrare nei meandri della sua mente, a carpirne le intenzioni, a prevederne se non ancora anticiparne i movimenti! Il criminale colpisce senza essere visto, simile a un coccodrillo mimetizzato nella palude, capace di lunghe, pazienti attese che gli consentono di azzannare la preda a colpo sicuro, con un solo scatto micidiale. Per neutralizzarlo è indispensabile scoprire le ragioni profonde del suo comportamento, portarne alla luce la geometrica follia, e ricostruire il più in  fretta possibile il disegno delittuoso.

Questa è la materia vera del romanzo su cui si esercita Maurizio De Giovanni procedendo su più piani narrativi e alternando il racconto delle indagini, che arrancano alla cieca, con le elucubrazioni deliranti dell’ignoto criminale. Ma l’impianto, forse anche a causa di una certa meccanicità, appare più teatrale che narrativo. Sullo sfondo c’è il commissariato partenopeo pigro e sonnolento, con i suoi ‘caratteristi’ un po’ di maniera che entrano ed escono dalla scena come attori di un canovaccio; gli stessi dialoghi risultano ricoperti dalla polvere del palcoscenico. Giuffrè, il compagno di stanza di Lojacono parla in questo modo al collega: “Mamma mia, veramente vuoi fare il poliziotto da grande? E chi sei, Maigret? Forza, Sherlock, dimmi perché sei così sicuro che la camorra non c’entra”.

L’ispettore in disgrazia, forse per tradurne visivamente l’interno cruccio, è descritto con “l’espressione indecifrabile, spettinato, l’impermeabile eternamente sgualcito”. Il tenente Colombo?

Letizia, la proprietaria della trattoria invaghita del suo misterioso cliente “nasconde dietro la risata contagiosa un carattere di ferro, superstite di un profondo dolore e di molta fatica”.

La dottoressa Laura Piras, con alle spalle un lutto che le ghiaccia il cuore palpitante, indossa un “tailleur impeccabile che le fascia il corpo morbido e minuto”. E Giuffrè la tratteggia per il collega come in una sceneggiata: “Piccola ma bona, anche se quando si accorge che le guardi le zizze (notevoli come avrai visto) è capace di cavarti gli occhi”.

De Giovanni è un abile compositore di trame, come dimostra la sua generosa produzione di polizieschi molto apprezzata dal pubblico. Ma questa prima uscita di Giuseppe Lojacono, che diventerà presto uno degli eroi prediletti de “I bastardi di Pizzofalcone”, lascia un po’ perplessi; e quando cala il sipario l’applauso stenta a partire.


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