“Toccare le principali leggi antimafia è un rischio gravissimo”. Intervista a Nando dalla Chiesa

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“La colonizzazione mafiosa in corso al nord è frutto di una agenda politica dove il capitolo mafia non c’e’ piu’ da tempo”.

L’attenzione dei media e della politica per le mafie è ormai molto scarsa, anche se in queste settimane il tema è tornato d’attualità per gli sviluppi delle inchieste sulle infiltrazioni mafiose prima a Roma e poi a Milano. Articolo 21 ne parla con Nando dalla Chiesa, sociologo, scrittore di successo, da 30 anni impegnato in politica e nella società, fondatore di movimenti e organizzatore di manifestazioni ed eventi, presidente onorario di “Libera”, studioso fra i più attenti dei fenomeni mafiosi.

Mafiosi in televisione senza contraddittorio, continue critiche alle associazioni antimafia, e ora addirittura l’ipotesi di rimettere in discussione il 41 bis, il carcere duro per i capi mafia. Come spiega questo fenomeno e dove si rischia di arrivare continuando così?
Il rischio è quello di sempre, la tendenza a funzionare come un pendolo: se c’è il sangue nelle strade c’è consapevolezza del pericoloso mafioso, se i morti non ci sono più o fanno meno rumore si pensa che si possa tornare indietro, e questo è uno degli aspetti più gravi  e insidiosi del rapporto fra lo stato e il fenomeno mafioso: si comincia a non parlarne, si pensa di poter modificare le leggi – e non c’è solo la discussione sul 41 bis, c’è anche quella sulla legge 416 bis (legge sui reati di associazione mafiosa) – e diventa sempre più grave la situazione in una società che non riesce a memorizzare quello che è accaduto e non capisce che certe leggi sono frutto della storia di un fenomeno e non dell’arbitrio di qualcuno. Sta avvenendo questo, indubbiamente.

La mafia è ormai ampiamente infiltrata a Roma, è arrivata anche in Emilia, e in questi giorni abbiamo una nuova conferma che è riuscita in parte a contaminare gli appalti dell’EXPO. E questo nonostante I nuovi codici degli appalti e le autorità di garanzia. Lo stato e i cittadini sembrano comunque destinati a soccombere: che diversità ci sono rispetto al passato?
La diversità sta nella capacità diffusa, soprattutto della ‘ndrangheta, di conquistare il nord, una capacità proporzionale all’incapacità di leggere il fenomeno mafioso e la non coerenza nell’affrontare questi temi che sono praticamente usciti dall’agenda politica. Non si sente da tempo un governo – e nemmeno i partiti – richiamare l’attenzione su questo, anche rischiando l’impopolarità, si sentono invece strumentali polemiche sull’antimafia o al massimo il giusto plauso alle operazioni delle forze dell’ordine, che ovviamente hanno grandi meriti.

Viviamo in un paese che non vuole vedere, che vede solo quando è costretto dai traumi, da fatti cruenti che lo trascinano davanti alla realtà, quella che io chiamo colonizzazione mafiosa è questo ed è molto tempo che il tema è stato rimosso, si sostiene che la lotta alla mafia è finita con il carcere duro a Totò Riina,  e purtroppo non è così, perchè la mafia è ramificata nella politica, nell’economia, nella società in tutte le sue espressioni. E l’indifferenza è il suo migliore alleato.

Il nuovo reato di depistaggio può aiutare in questo senso?
Certamente, in qualche modo, il reato di depistaggio può aiutare, ma io ho fatto questa analisi: per combattere davvero le organizzazioni mafiose è necessario contrastare le forze sul campo, agire sul territorio, e per gli appalti e le infiltrazioni nel sistema economico è indispensabile portare ai massimi livelli la qualità delle commissioni che giudicano, che devono essere al di sopra di ogni sospetto prima di tutto moralmente  e molto al di sopra per qualità e competenza tecnica, devono avere un livello elevatissimo. Questa è la chiave per avere appalti puliti e garanzie di trasparenza.

Cantone per Milano aveva lanciato il segnale di una città che si stava affrancando dal condizionamento delle cosche negli appalti e aveva messo l’accento sul degrado della situazione a Roma. E’ così?
Se vogliamo dire che Milano è stata più attenta di Roma credo che sì, lo si possa dire: a Milano non ci sono politici indagati e questo lo dimostra, gli strumenti di difesa forse non erano insuperabili ma un argine lo hanno costituito, argini che a Roma da alcuni anni non sono stati eretti affatto. Penso quindi che Milano in questo senso possa essere considerata diversa ma certamente non indenne. E’ un argomento delicato: in ogni caso non è auspicabile una sorta di autoassoluzione di Milano, io per primo ho detto nel corso dei lavori dell’osservatorio di controllo su Expo che ho fatto tutto il possibile ma nonostante questo non potevo metterci la mano sul fuoco. Finora la città ha preferito autoassolversi e anche questo può essere un rischio, perché potrebbe provocare una sorta di intolleranza al contrario, con il solito ricorso a prendersela con i magistrati e con i giornalisti, secondo un copione già da tempo consolidato.

Il tema dell’informazione e più in generale della comunicazione sulle mafie resta centrale, con spinte centrifughe maggiori che in passato verso forme di spettacolarizzazione: qual è la sua valutazione?
Il rapporto dell’informazione con la mafia in questa fase storica è scivoloso: si può anche intervistare un mafioso e sappiamo che è stato fatto in passato sui giornali e in televisione, non è affatto un tabù. Il punto è come vengono fatte queste interviste. Il caso dell’intervista al figlio di Riina è un prototipo al contrario, cioè è il modello di come un giornalista non deve fare un’intervista ad un mafioso, al punto che noi alla nostra summer scool lo studiamo proprio in questo senso, e credo che non siamo i soli…un brutto passaggio per il servizio pubblico.

Anche sulla fiction la valutazione non è facile. Negli anni ’80, ad esempio, una fiction come “La piovra” ci aiutò a superare la saga del “Padrino”, che aveva fornito una visione romanzata e pericolosa della mafia, mentre “La piovra” restituiva la dignità al poliziotto, ne faceva un modello positivo, basato sull’incorruttibilità e sul coraggio, anche davanti alle pressioni del potere colluso. Quello fu un passaggio positivo della Rai. Oggi in effetti c’è un po’ troppa spettacolarizzazione, i poliziotti dicono che i ragazzi arrivano a fare gli agenti con l’idea che si viva in un telefilm, con un rapporto con la realtà un po’ deviato, e questo non è mai un bene. Ci sono poi altri aspetti insidiosi: ricordo che ero con Don Ciotti ad una presentazione in una libreria dove, accanto a chi partecipava alla presentazione, c’erano tanti ragazzi che guardavano il lancio di un gioco chiamato uccidi il tuo poliziotto…Per fortuna non è la situazione prevalente,anzi, ci sono moltissimi giovani che sono ben informati sulla storia recente del paese anche in termini di mafia, questo vuol dire che i bravi insegnanti alla fine sono tanti, perché se ci sono dei meriti in questa sensibilizzazione sono soltanto loro.

E infatti oggi si devono fare i conti la rete, i social, tutto ciò che passa per i PC, gli smartphone, i tablet…è meglio o peggio di prima?
Tutto quello che ormai identifichiamo con la rete è di fatto senza controllo e quindi di per sé è un rischio, ma se io penso cosa significava dover organizzare una manifestazione antimafia venti o trenta anni fa… dipendevamo dai giornali, dagli scontri fra giornalisti, dagli interessi degli editori. Non c’è paragone con oggi, ora abbiamo a disposizione la rete con cui si costruiscono eventi, appuntamenti, corsi di formazione, dibattiti, luoghi come anche Articolo 21 dove si portano avanti progetti e si costruiscono solidarietà, e devo dire che io ogni giorno ringrazio la rete perchè è un potente mezzo di diffusione della conoscenza e della condivisione: in questo modo chi è sensibile a certi temi trova subito l’altro, e questo prima era molto, molto più difficile. Secondo me alla fine il saldo è positivo.


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