Rai, di tutto di peggio

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La buca della posta è diventato una spauracchio in più. Da luglio il canone Rai (100 euro l’anno) si paga obbligatoriamente sulla bolletta elettrica e non più tramite un versamento volontario. È una pillola amara per milioni di persone, sia per gli evasori ma anche per chi ha sempre pagato regolarmente e tuttavia detesta le imposizioni.

Non è una bella pubblicità per l’azienda radiotelevisiva pubblica. Ma le coincidenze negative alle volte, come in questo caso, sono addirittura velenose. Un conto è pagare il canone per finanziare il servizio pubblico, informazione e programmi di buona qualità, del tutto diverso è un balzello per erogare “stipendi d’oro”. La botta è troppo forte per gli italiani nei guai per la crisi economica e impauriti dalle minacce del terrorismo islamico. È poi difficile fare distinzioni, peraltro assenti sui giornali, che pure ci sono. Un conto sono i “magnifici 94” con retribuzioni di oltre 200.000 euro l’anno, un altro conto è la massa dei 13.000 lavoratori Rai, con gli stipendi praticamente congelati dal 2008 a causa della crisi economica.

Le regole alla Rai, molte volte, valgono per tutti tranne che per i furbetti e i privilegiati. 200.000, 250.000, 300.000, 350.000 mila euro. Su, sempre più su fino a toccare la vetta siderale di 650.000 euro. I mega stipendi Rai sono cifre mozzafiato da lotteria.

Festeggiano i “magnifici 94”, un pugno di persone tra i 13 mila dipendenti, una ristretta cerchia di manager e giornalisti con uno stipendio superiore ai 200 mila euro lordi l’anno. Al primo posto in classifica c’è il direttore generale dell’azienda radio-televisiva pubblica, Antonio Campo Dall’Orto, con 650 mila euro, subito dopo segue in seconda posizione il presidente di Rai Pubblicità Antonio Marano con 392.000. I direttori dei telegiornali veleggiano tra i 280 mila e i 300 mila euro. Tra i “magnifici 94” ci sono anche i direttori delle reti televisive e radiofoniche, più diversi vice direttori e redattori capo, in alcuni casi rimasti senza incarico di lavoro, ma comunque conservando lo “stipendio d’oro”.

La lista dei 94 fortunati dirigenti e giornalisti è stata pubblicata in omaggio alla “trasparenza” su Rai.it, il sito internet della’azienda. Campo Dall’Orto ha commentato: «La trasparenza è amica della competenza e sorella dell’innovazione». Già, in genere, la trasparenza dà frutti positivi. Tuttavia in questo caso i frutti o non ci sono o stentano a comparire tra i rami del malandato albero della Rai.

I motivi sono diversi. Prima di tutto non è stato rispettato il “tetto” di 240.000 euro l’anno introdotto da Matteo Renzi per tutti i dipendenti pubblici. Il presidente del Consiglio, in una situazione di grave crisi economica, ha chiamato gli alti dirigenti pubblici a contribuire ai sacrifici sopportati dai cittadini comuni. Come limite massimo di retribuzione è stato fissato per legge il reddito annuo lordo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: 240.000 euro, appunto. In sintesi: Campo Dall’Orto guadagna quasi il triplo del capo dello Stato e circa il sestuplo del presidente del Consiglio. Il precedente consiglio di amministrazione della Rai si è adeguato al “tetto” introdotto dal governo e sono calati i mega stipendi. L’allora direttore generale Luigi Gubitosi ha accettato, anche per sé, la soglia dei 240.000 euro.

Ma con l’attuale consiglio di amministrazione, la situazione è cambiata. Fatta la legge trovato l’inganno, alle volte i proverbi sono brutalmente veri. Alla Rai non è stato più applicato il “tetto”stabilito dal governo perché, anche se l’azienda è di proprietà del ministero dell’Economia, formalmente si tratta di una società di diritto privato. Di qui lo scoppio del caso dei “magnifici 94”. La positiva “trasparenza” non ha prodotto i frutti sperati. È un brutto colpo per l’azienda  di servizio pubblico di fronte agli italiani angustiati dalla crisi, e per Renzi.

Non solo. Non si vedono risultati. Campo Dall’Orto, assieme al consiglio di amministrazione della Rai, si è insediato giusto un anno fa, ad agosto del 2015, con ampi poteri: è divenuto, grazie alla riforma dell’azienda votata dal Parlamento, direttore generale ma con le competenze più forti, tipiche di un amministratore delegato. È arrivato il primo anniversario dell’investitura, ma non si è vista alcuna novità per rilanciare il servizio pubblico. C’è stata ben poca “innovazione” sia nell’informazione (tv, radio, web) sia nei programmi televisivi e radiofonici. È prevalso l’immobilismo. Non è stato illustrato né avviato alcun piano di rilancio industriale-editoriale, né di riorganizzazione produttiva, smentendo le tante promesse di rinnovamento. È il secondo brutto colpo per la Rai e per Renzi, un tempo deciso sostenitore di Campo Dall’Orto.

Il presidente del Consiglio e segretario del Pd si è speso per viale Mazzini: con una clamorosa iniziativa, non gradita dagli utenti, ha messo il canone nella bolletta elettrica. La storica svolta è stata decisa per eliminare la forte evasione del canone, intorno al 30%. L’importo da pagare, però, è stato abbassato in base al principio di “pagare meno, pagare tutti”. Tuttavia la novità non è piaciuta a molti cittadini. Tante persone, anche non evasori, hanno storto la bocca contro l’obbligo di pagare il canone nella bolletta elettrica, mentre l’informazione e i programmi Rai continuano a non cambiare senza una cura basata sulla qualità. È il terzo brutto colpo per la Rai e Renzi.

Una novità di struttura, però, è stata realizzata. Carlo Verdelli è stato preso da ‘Repubblica’,  stipendio di 320 mila euro l’anno, con l’incarico di “direttore editoriale per l’offerta informativa”. Verdelli, stimato giornalista, ha chiamato ad aiutarlo diversi colleghi esterni ed interni alla Rai con retribuzioni pesanti. Uno di questi è Francesco Merlo, editorialista di ‘Repubblica’ in pensione, preso con una consulenza di 240 mila euro. Fa parte del gruppo di collaboratori i cui redditi sono stati pubblicati perché incassano un compenso di oltre 80 mila euro. Però questa nuova costosa struttura (un milione di euro l’anno) finora non sembra aver carburato facendo sentire la sua presenza. Non si capisce nemmeno bene che genere di coordinamento giornalistico sia stato affidato a Verdelli, visto che le diverse testate Rai dipendono, secondo il contratto nazionale di lavoro, solo dal loro direttore. Si tratta del quarto brutto colpo per la Rai e per Renzi.

Qualcuno chiama in causa il mercato per giustificare gli “stipendi d’oro” in Rai. Ma l’argomento non regge. Prima di tutto l’azienda è di servizio pubblico e, in gran parte, finanziata dal canone pagato dai cittadini. Se poi i privati volessero pagare di più, facciano pure. Tuttavia è una possibilità molto improbabile: i giornali (in testa i grandi quotidiani come ‘la Repubblica’ e il ‘Corriere della Sera’) non godono certo di buona salute. Negli ultimi otto anni sono crollate vendite, pubblicità e occupazione. Molti giornali, periodici, agenzie di stampa, tv e radio locali hanno chiuso licenziando, tante altre  hanno messo i lavoratori in cassa integrazione, in pre-pensionamento o “in solidarietà” (questo tipo di contratti riduce in maniera più o meno pesante gli stipendi). Parafrasando Humphrey Bogart la replica è semplice: “Non è il mercato, bellezza!”.

Tra la maggioranza e le opposizioni si è subito scatenata la rissa sulle responsabilità per gli “stipendi d’oro”. Ma tutti dicono basta e chiedono il rispetto del “tetto” dei 240 mila euro. Niente deroghe e applicazione delle norme sul “tetto” sono anche la richiesta del Pd, il partito del presidente del Consiglio. Il vertice dell’azienda, però, ha “frenato”. Campo Dall’Orto si è limitato a parlare di «un percorso di autoregolamentazione».

Renzi, già indebolito dalla sconfitta elettorale alle comunali di giugno, rischia una slavina di proteste popolari sulla Rai vista come “Casta”. E la situazione potrebbe peggiorare per il presidente del Consiglio e segretario del Pd: ancora non sono noti i compensi, sembra da favola, di star televisive esterne come Fabio Fazio, Bruno Vespa, Massimo Giletti. Un vecchio slogan pubblicitario di viale Mazzini diceva: “Rai, di tutto di più”. Adesso si rischia di scivolare in “Rai, di tutto, di peggio”.


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