L’ex ministra Kyenge alla vedova di Emmanuel: “Abbiamo bisogno di te”

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La scrittrice Michela Murgia ha dichiarato via Facebook che i cattivi maestri di colui che ha colpito Emmanuel Chidi Namdi, il nigeriano rimasto ucciso a fermo, e picchiato la moglie di lui, siedono in Senato. Sono quelli che «dieci mesi fa hanno negato l’autorizzazione a procedere contro Calderoli quando diede dell’orango a Cécile Kyenge. Era critica politica, affermarono, mica razzismo, e lo dissero senza distinzioni di partito…». «Questo – concludeva la scrittrice – succede a pensare che le parole non abbiano conseguenze». Con Cécile Kyenge, ministra dell’Integrazione nel governo Letta (2013-2014) parliamo di questo tragico episodio.
Un tragico episodio che richiama per analogie – l’insulto alla moglie di Namdi definita «scimmia» – quello che la riguardò qualche tempo fa.
«Innanzitutto, tutti noi, oggi dovremmo rendere omaggio alla vittima. Ricordarci che a causa dell’odio razziale, oggi siamo costretti a contare un’altra vittima. Dunque il mio primo pensiero va a Namdi e a sua moglie. Certamente la politica ha la sua parte di responsabilità. Le istituzioni parlamentari dovrebbero promuovere – invece di essere spesso cattive maestre – politiche lungimiranti, dunque essere in grado di captare con anticipo segnali pericolosi per dare risposte, preventive e non postume, a conflitti e a fenomeni di razzismo e intolleranza».

L’insulto razzista che le fu rivolto è l’esempio opposto di quanto lei afferma. Dunque?
«In quel caso la politica non ha saputo dare risposte. Il fatto di Fermo è scaturito proprio da un epiteto: scimmia, lanciato dal fermano nei confronti della moglie di Namdi. La storia si ripete. La dinamica dei fatti dovrà essere valutata dagli inquirenti ma è assodato che quelle parole, come ribadito anche dall’avvocato dell’imputato, siano state la causa e la scintilla scatenante di quel conflitto; una rissa che si è trasformata in una tragedia di inaudita violenza. Se l’esempio dei nostri rappresentanti politici in Senato fosse stato, nel caso Calderoli, un altro, ossia una severa condanna delle parole espresse nei miei confronti ribadendo un no e uno stop a qualsiasi insulto razzista o offesa di quel tenore, forse oggi nessuno si sentirebbe “autorizzato” a poter utilizzare liberamente espressioni offensive di quel genere. Invece, chi riceve oggi questo tipo di offese si sente solo, una vittima indifesa anche dalla politica. Il mio caso credo sia un esempio di ciò che può accadere se si decide di chiudere gli occhi e sminuire fenomeni sociali importanti che dovrebbero destare preoccupazione».

Che cosa si potrebbe fare?
«Servirebbe una strategia nazionale e condivisa da tutti, operatori culturali, politici, uomini di cultura e dell’arte, dello spettacolo, professori, solo per fare alcuni esempi, per guidare la lotta comune contro il razzismo e la discriminazione e contrastare anche la paura degli afro-discendenti che sta aumentando ogni giorno di più, fenomeno sempre più preoccupante anche negli Stati uniti e nell’America del Sud. Oggi la presenza delle diversità sul nostro territorio dev’essere riconosciuta. Dovremmo muoverci in rete e tutti gli anelli devono completarsi l’un l’altro: politica, società civile, istituzioni, associazioni culturali. Una catena d’impegno che non deve potersi spezzare. Purtroppo ci sono ancora troppe divisioni. Chi ha sferrato il corpo mortale poteva scegliere la nonviolenza, poteva scegliere il dialogo, poteva scegliere il rispetto, poteva scegliere la fiducia rispetto al sospetto. Non lo ha fatto. Gli strumenti che la cultura, la politica, la scuola, l’informazione propongono e diffondono sono importanti. Se la politica – ma non solo questa – si accontenta di utilizzare luoghi comuni, strumentalizzando paure, crisi e disagi, insomma fare “bassa politica”, non fa il suo mestiere che è quello di mettersi a disposizione dei cittadini eticamente e in modo educativo».

Anche l’informazione ha delle colpe dunque?
«Assolutamente, la parole utilizzate e i titoli che alcuni giornali lanciano a grandi caratteri possono tramutarsi in armi, macigni, pugni. L’utilizzo corretto delle parole è importante ed è sempre necessario rispettare l’etica del giornalista e la deontologia professionale. Anche l’educazione civica dovrebbe tornare a essere insegnata nelle scuole».

Molti atteggiamenti aggressivi, atteggiamenti razzisti, sono imputabili alle paure e alla crisi…
«Quando manca la politica, o questa non riesce a dare le giuste risposte, è normale sentirsi soli, spaesati, abbandonati. Vincono dunque i luoghi comuni e le paure e regna la confusione. Sulla pagina Facebook Salvini scrive, condannando la violenza avvenuta a Fermo, che il caso è avvenuto per colpa dell’immigrazione incontrollata. Chidi Namdi e la moglie sono, per lo Stato italiano e l’Europa, due profughi, due rifugiati. Mescolare temi e informazioni in modo confuso e non corretto è un gioco pericoloso che non aiuta di certo la comprensione di fenomeni sociali e culturali complessi. Oggi invece leggiamo commenti e titoli che fanno rabbrividire».

La Comunità di Capodarco di Fermo da tempo subisce intimidazioni per la sua propensione all’aiuto e all’accoglienza di persone bisognose.
«Per anni in Italia, e in Europa, abbiamo assistito a un approccio “securitario” rispetto alle politiche migratorie. Bandierine utilizzate per creare lo spauracchio del diverso, dell’immigrato. Oggi abbiamo bisogno di politiche di inclusione. Ci sono tante buone pratiche ovunque, come quella dei Corridoi umanitari, per fare un solo esempio, ma dobbiamo arrivare da una politica comune europea su: immigrazione e asilo; salvaguardia della vita umana; modifica del regolamento di Dublino; responsabilità comune europea; missioni umanitarie e intervenire sul cambiamento climatico e nelle zone del mondo depresse; contrasto al terrorismo. Dunque risposte immediate a medio e lungo termine».

Che cosa si sente di dire oggi dopo il tragico fatto di Fermo?
«È difficile dire qualcosa in questi momenti, si corre il rischio di dire banalità e non vorrei. Stiamo parlando di persone fuggite dalle brutalità di BoKo Haram, dal terrore della morte. Queste due persone grazie al loro amore sono riuscite a raggiungere una meta sicura; un amore oggi spezzato dall’odio. Posso solo dire che noi oggi ci siamo e che siamo al fianco di questa donna per lottare contro ogni forma di odio e intolleranza nel nome di suo marito. Ma che abbiamo bisogno anche di lei per portare avanti la nostra battaglia verso l’ingiustizia, l’ignoranza e l’odio razziale».

Fonte: Riforma.it


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