In rotta di collisione

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I più recenti avvenimenti internazionali sulle opposte sponde dell’Atlantico accentuano il sospetto -non nuovo- che le società occidentali stiano attraversando frequenti stati confusionali. Dati economici e politici coerenti vi sovrappongono tuttavia una lettura in chiave di crescente disagio sociale. La Gran Bretagna si spacca per uscire dall’Unione Europea, Donald Trump promette agli americani un neo-isolazionismo e raggiunge Hillary Clinton nei sondaggi, la Spagna non trova una maggioranza di governo neppure con una seconda votazione, l’Austria invalida l’elezione presidenziale appena proclamata. L’ immaginario collettivo (ma anche la realtà) è a rischio di schizofrenia. Con la questione identitaria, amplificata a dismisura da digitalizzazione e social-media, in bilico tra cabaret e tragedia.

Con un calcolo che a posteriori risulta a dir poco affrettato, il premier inglese David Cameron consulta oltre 60 milioni di concittadini perché dicano se vogliono continuare a far parte dell’ Unione Europea oppure andarsene. I grandi centri urbani ad alto reddito e protagonismo propendono per restare; prevalgono però le più popolose provincie in declino economico e d’identità, che ne vogliono invece uscire. Fin qui l’opposizione è chiara e coerente. Ma bastano poche ore perché il pentimento attivo di non sappiamo quanti partigiani del Brexit mobiliti 3 milioni e mezzo di firme, per la richiesta di un nuovo referendum che rovesci il risultato del precedente. Lo stesso governo, ormai dimissionario, mostra perplessità e prende tempo di fronte allo sconquasso economico provocato dal Brexit in tutto il sistema dei partiti.

Dall’inaspettata revoca della risolutezza inglese (evocata per ultimo ancor oggi dall’icona Winston Churchill ), all’estemporaneità fiammeggiante del bellicoso Trump, lo scontro corre lungo l’opposizione società e frontiere aperte-società e frontiere chiuse; liberali innovatori contro conservatori reazionari, spesso assai poco coincidenti con il convenzionale schieramento destra- sinistra. Il celebrato bipartitismo va in pezzi in Europa con il fiorire di nuove formazioni, moltiplicatrici apparenti dell’offerta politica che solo la pigrizia mentale di non pochi osservatori pretende di mettere in fila sotto l’ectoplasmatica etichetta di populisti. Ma scoppia anche sul più consolidato mercato politico-elettorale degli Stati Uniti, in cui candidati come Donald Trump sono dichiaratamente alternativi al tradizionale moderatismo di democratici e repubblicani.

E’ il momento opportuno per ricordarci che gli uomini nascono tutti uguali, oltre che liberi, che non esistono popoli “eletti” e quei caratteri nazionali attribuiti a questi o a quelli (gli uni resi tenaci, affidabili e operosi dal clima ostile o dall’esempio intemerato d’un capo virtuoso, gli altri pigri e riottosi per effetto di circostanze opposte: Cristo, Mosheh e Muhammad nacquero tutti tra deserti roventi e mari caldi) hanno storie recenti, quelle della formazione degli stati-nazione europei. Nel corso delle quali esaltare se stessi e denigrare i vicini era parte notevole del processo nell’intero vecchio continente. Sulla base di prove scientificamente riconosciute, autorevoli storici, biologi, demografi affermano da tempo che formiamo tutti un gigantesco meticciato di popoli in periodica migrazione sul nostro pianeta.

Non dovremmo pertanto stupirci eccessivamente se a dispetto della storia e della geografia, a fronte di analoghi problemi siano analoghe anche le reazioni. Se le democrazie più o meno partecipate dell’occidente cedono a un’esasperata polarizzazione economica e per gestirla lasciano lievitare burocrazie con vocazione oligarchica via via meno sensibili ai bisogni della gran massa dei cittadini, questi saranno indotti prima a criticarle, poi ad allontanarsene e infine ad opporvisi. Non è solo ad essi che va ricordato come l’hitlerismo fu lo sbocco ultimo della repubblica di Weimar. A maggior ragione se il fantasma che turba oggi l’Europa e il mondo non è certo il bolscevismo. Semmai il suo contrario, visto che ai popoli viene detto e ripetuto che troppi sono i diritti acquisiti e troppo poche le risorse necessarie per soddisfarli.

Questo squilibrio sarebbe la causa dell’instabilità che attenta ormai al senso comune oltre che alle istituzioni intese nella loro concezione più ampia: stati gravati da immensi debiti sovrani, banche rese asfittiche da crediti inesigibili, imprese perseguitate da imposte insostenibili, previdenze sociali sull’orlo della bancarotta per l’eccesso di pensionati longevi oltre misura. Per tutto ciò gli investimenti produttivi scarseggerebbero, lasciando che la disoccupazione a due cifre divenga un dato strutturale che eclissa il futuro dei giovani. Il cittadino non ancora completamente intorpidito da tante inconsapevoli negligenze deve sentirsi assediato dai sensi di colpa. C’è da comprenderlo se a volte -preda sognante d’una bucolica anarchia- perde prospettiva e offre l’impressione di votare contro i suoi propri interessi.

Qualche conto, però, non gli dà tutti i torti, anzi… Conosciamo governi nazionali che si giocano la vita su uno zero virgola qualcosa d’incremento del PIL. In Europa neppure i virtuosi tedeschi della signora Angela Merkel sperano quest’anno di arrivare al 2 per cento. Nondimeno la Capgemini, una multinazionale specializzata in consulenze aziendali presente in 40 paesi (Italia compresa), dice che la ricchezza globale prodotta nel 2015 è aumentata del 4 per cento. Meno che nel decennio precedente, ma quattro volte maggiore della media degli ultimi 20 anni. La Banca Mondiale fornisce dati simili. Dunque non è vero che diminuisca la ricchezza complessivamente prodotta. E’ vero il contrario: la ricchezza aumenta e in misura rilevante. Ma compie un doppio movimento: da ovest verso est e d’incessante concentrazione che determina squilibri a tutto campo.

In questo contesto, l’Unione Europea e i suoi governi nazionali, ma anche quelli americani a cominciare dagli Stati Uniti, le grandi istituzioni in genere, vengono visti e giudicati da ampie masse delle diverse e tuttavia non tanto dissimili popolazioni, tendenzialmente omogeneizzate dall’infittirsi delle comunicazioni e dall’assimilazione a costumi comuni, come delle élites separate e sempre più estranee agli interessi generali. Lo storico americano Christopher Lasch lo ha avvertito oltre trent’anni fa, ovviamente inascoltato. Definire pertanto anarcoidi le spinte di queste masse può anche non essere del tutto improprio, sia dal punto di vita storico sia da quello lessicale. Quanto però ad attribuirgliene intera la responsabilità è con ogni evidenza poco saggio quanto inutile. Primum vivere, deinde philosofari, consigliava lo scettico Hobbes al Principe.

Non si tratta certo di smontare l’Unione Europea per smontare l’impero globale dei miliardari (di quell’uno per cento della popolazione che comanda il 90 per cento delle ricchezze planetarie). La semplificazione di uno scontro città-campagna come contraddizione principale appartiene alla Cina di Mao (1960: oltre mezzo secolo addietro). L’odierna complessità del mondo -a voler restare nella casistica estremo-orientale- è semmai sommariamente esemplificata dall’attuale Cina-centauro, comunista e capitalista ad un tempo, quello bifronte da Deng a Xi Jinping, alle prese con profitti e perdite dell’uno e dell’altro regime contemporaneamente. Una crescita colossale che avvicina paurosamente al collasso l’equilibrio sociale, economico ed ecologico, con il rischio concreto e visibile di fratture insanabili tra distinti strati sociali e regioni del paese.

Gli istituti delle democrazie capitaliste, l’Unione Europea in primis, hanno assicurato ai propri popoli più pace e prosperità di qualsiasi altro periodo e regime dell’era moderna. Fortemente prevalente è però ormai la percezione d’una inversione di tendenza. Se i conflitti nella storia umana sono fisiologici, canalizzarli attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori sociali è indispensabile. Comunque bisogna puntare ad ampliarne al massimo la platea. Ed è compito precipuo della politica, che non può eluderlo facendo surrettiziamente ricorso a poteri straordinari comunque camuffati. C’è urgente necessità di riorganizzare i mercati con regole semplici e trasparenti, pena il montare di rivendicazioni settoriali, corporative e nazionalistiche che più rapidamente di quanto si creda possono trasformarsi in un’incontenibile rissa globale.

*ildiavolononmuoremai.it


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