Turchia, il bavaglio all’informazione non si ferma. 2 maggio all’Ambasciata

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I giornalisti critici, in Turchia, non possono più nemmeno atterrare. L’ultima stretta all’informazione riguarda i reporter europei. In due settimane i casi si sono moltiplicati. All’inviato della tv tedesca Ard è stato negato l’ingresso al suo arrivo in aeroporto: voleva realizzare un servizio sui migranti, dopo l’accordo firmato tra Ue e Ankara. “Ultima fermata Istanbul – ha scritto sul suo profilo Twitter – Mi impediscono l’ingresso in Turchia. E’ stato emesso un provvedimento nei miei confronti. Forse il problema è che sono un giornalista?”. Pochi giorni dopo al fotografo greco Giorgos Moutafis, diretto in Libia per un servizio per quotidiano tedesco Bild, è stato negato lo scalo a Istanbul, mentre al corrispondente del settimanale Der Spiegel è toccata l’espulsione. Addirittura la reporter olandese di origine turca, Ebru Umar, è stata arrestata mentre era in vacanza sul Mar Egeo, a Kusadasi, per aver definito, su Twitter, Erdoğan un dittatore. Senza contare il caso del comico tedesco Jan Boehmermann, autore di una poesia satirica ritenuta offensiva dal capo dello Stato: oggi è perseguito dalla giustizia in Germania dopo il via libera dato dalla stessa Cancelliera Merkel.

Questa è la Turchia che si avvicina sempre più all’ingresso nell’Unione Europea: proprio lunedì, mentre il ministro turco per gli Affari Ue, Volkan Bozkir, ha annunciato il completamento delle riforme per l’abolizione dei visti, ci sarà una protesta organizzata dalla Fnsi, l’Usigrai, Articolo 21 – insieme a tutte le associazioni che da tempo si battono per la libertà di informazione nel mondo –. La maratona di sit-in sotto le ambasciate si fermerà anche sotto quella di Turchia, oltre che dell’Egitto e dell’Iran. La Turchia è forse il paese in cui la stretta all’informazione, la censura preventiva, l’arresto come minaccia stanno sempre più prendendo veste e legittimazione istituzionale, approfittando di un paese monocolore che vede Recep Tayyip Erdoğan come massima carica dello Stato e il suo partito, l’Akp, governare con la maggioranza assoluta. Qui accade che i reporter finiscano in carcere con l’accusa di spionaggio per aver raccontato verità scomode per lo Stato – quel passaggio di armi dall’intelligence turca (il Mit) ai jihadisti in lotta contro Assad in Siria – così come è successo a Can Dundar ed Erdem Gul, su cui oggi pende una richiesta di ergastolo. Accade che giornalisti come Ceyda Karan e Hikmet Cetinkaya vengano condannati a due anni di carcere con l’accusa di “offesa ai valori religiosi” e “istigazione all’odio” soltanto per aver dato spazio su Cumhuriyet alle vignette di Charlie Hebdo dopo l’attacco alla rivista satirica. Cumhuriyet è il più antico quotidiano di Turchia, una delle poche voci non allineate al governo, uno dei cinque giornali al mondo – l’unico di un paese islamico – a riprodurre alcune caricature pubblicate da Charlie Hebdo in cui il profeta Maometto mostra un cartello con su scritto “Je suis Charlie”, lo slogan con cui in Francia in migliaia scesero in piazza per condannare gli attacchi jiahdisti all’indomani del 7 gennaio. Anche questa condanna è un modo per silenziare una delle poche voci laiche, in un Paese in cui soltanto la scorsa settimana il presidente del Parlamento turco Kahraman ha proposto di eliminare il termine laicità dalla Costituzione. La condanna a Ceyda Karan – che a gennaio al congresso Usigrai a Roma ha avuto il coraggio di testimoniare quanto sia violenta l’aggressione subita dai giornalisti in Turchia – è soltanto l’ultima delle intimidazione alla stampa da parte di Erdoğan. A marzo la redazione di Zaman, il quotidiano d’opposizione più letto del Paese, è stata chiusa con l’irruzione della polizia e poi messa sotto amministrazione controllata dal governo.

Nel sud del Paese – dove, a Est, le città curde sono ancora sotto coprifuoco e, a Ovest, Erdoğan pensa di costruire nuovi campi profughi – ormai non esistono più voci indipendenti. Non si contano i giornalisti arrestati con l’accusa di sostegno al terrorismo solo per aver filmato gli scontri tra i curdi e la polizia. Quel che accade a chi vuole documentare è molto lontano dalle dinamiche di un paese democratico: al cameramen curdo di Ozgur Gun Tv la polizia ha puntato la pistola alla testa, una film-maker è stata caricata brutalmente su un blindato solo perché aveva una telecamera in mano. E così, nessun racconta quel che sta succedendo tra l’esercito turco – nella sua dichiarata guerra al Pkk – e la popolazione curda. Di quelle centinaia di morti tra i civili (868 da luglio, secondo l’ultimo rapporto del partito filo-curdo Hdp) – nessuno parla. Una volta la speranza erano i giornalisti stranieri. Ora, mentre l’Europa sta per concedere ai turchi una procedura speciale per i visti, i giornalisti europei considerati scomodi non possono più nemmeno entrare nel Paese.


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