Siamo tutti peccatori. “Resta con me” di Elisabeth Strout

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Di facciata o di sghembo, siamo tutti peccatori. E specialmente quando alziamo troppo spesso il dito pronti a condannare il prossimo, riveliamo dietro la prosopopea della virtù l’occultamento di vizi spesso inconfessabili persino a noi stessi. Questo è lo scenario, anzi il campionario umano, al quale siamo chiamati ad assistere nella cittadina di West Annet, un piccolo centro del Maine, lo stato americano più a Nord Est della regione del New England, primo approdo dei Padri Pellegrini nel Nuovo Mondo. Siamo negli anni Cinquanta, l’epoca della guerra fredda, di Kruscev, dello Sputnik e della minaccia atomica. Nella piccola comunità di severa impronta conservatrice e puritana arriva il reverendo Tyler Caskey, ancora fresco di seminario, assunto dal Consiglio di Amministrazione della chiesa protestante locale, Congregazionalista, con uno stipendio assai modesto. Ma al ministro del culto quell’ingaggio sembra un dono dell’Altissimo, perché potrà finalmente svolgere il suo servizio a diretto contatto con un proprio gregge e la domenica pronunciare fiammeggianti sermoni a memoria, com’è suo talento, senza leggere una riga, per meglio coinvolgere e conquistare il cuore di chi lo ascolta. Nella pausa del caffè si mette a disposizione dei fedeli,  entusiasti di lui, e per ognuno ha in serbo un complimento, un saluto squillante, un afflato di sollecitudine. Tyler è “un uomo grande, alto e dalla corporatura robusta, e stringergli la mano era quasi come afferrare quella di un orso”. Il giovanotto ha accanto Lauren, una moglie bellissima e sensuale che si è innamorata a prima vista e perdutamente di lui, decidendo di sposarlo incurante di deludere le attese della famiglia del Massachusetts, pragmatica e molto benestante. Il giorno in cui i coniugi si insediano a West Annet, hanno già una bambina, Katherine, di pochi anni e una seconda in arrivo. Lauren Caskey è “diversa da come se l’erano immaginata”, in lei c’era qualcosa di ‘grande’: aveva gli occhi grandi, la bocca grande, le guance grandi e rotonde”, e indossa scarpe maliziose “con tacchi alti e cinturino, e c’era ancora la neve!” Non esattamente il modello di donna raccomandato nel libro “La moglie del pastore” che Margareth, l’arcigna madre di Tyler, s’era premurata di regalarle per le nozze.

Il Comitato del Pulpito, capeggiato dalla potente Ora Wilson, assegna alla coppia una casa piuttosto malandata in una fattoria distante dall’abitato; e Lauren per mitigare lo squallore delle stanze ottiene il permesso di ridipingere le pareti, rendendole tutte rosa. Intuiamo già quale sia la china che prenderà la storia. La quale però non è raccontata in successione lineare; l’autrice Elisabeth Strout sceglie una tecnica diversa per questo suo secondo romanzo “Stai con me” (Fazi Editore, pp. 368) che la consacra in America tra gli scrittori di culto. Parte da un episodio e lo sviluppa a spirale inglobando via via gli altri, lungo la scansione di tre libri e undici capitoli, più somiglianti ai gironi di un inferno insospettabile che mette a dura prova la fede dell’uomo di Dio e il nostro sentimento di pietà. E ci guida per mano a una travolgente palingenesi finale in cui ci sembra, come nella Commedia di Dante, di evadere dall’angoscia e uscire a riveder le stelle. Ma non prima di aver maturato nel corso della lettura una riflessione sull’insidioso grado di conflittualità che può stabilirsi nella vita dell’essere umano tra le opposte visioni del trascendente,  quale timone irrinunciabile della nostra esistenza, e le sempre più onnipotenti discipline socio-psicologiche finalizzate all’ottuso conformismo della ‘correttezza politica’.

Ognuno troverà la propria risposta, confermerà o invaliderà la propria convinzione, affiancando il protagonista in un vortice di tragici accadimenti che lo condurranno all’invocazione del titolo: “Resta con me; presto cala la sera, la tenebra si addensa; resta con me o Signore. Quando ogni aiuto viene meno e il conforto svanisce… resta con me, o Signore”.

Accade infatti che nonostante l’amore e la reciproca attrazione (“Lauren era tutta luce. Tyler non aveva mai incontrato nessuno che irradiasse tanta luminosità”), i gravi disagi quotidiani mettano a dura prova l’unione tra il Reverendo e sua moglie; e quando l’ultima nata, Jeanne, è ancora molto piccola, Lauren si ammala di cancro e muore; consegnando alla disperazione il marito che non riesce ad assorbire il lutto irreparabile, e a far fronte alla difficoltà di badare da solo alla casa, alle due figlie bisognose di ogni cura, al suo servizio ecclesiastico. Katherine, traumatizzata, smette di parlare, e dopo aver dichiarato a scuola che “odia Dio”, viene considerata dalle insegnanti una bambina ‘ritardata in base a un test di intelligenza’, da sottoporre a cure psicologiche. Il padre vorrebbe controbattere alla saccente laureanda in psicologia che “era un’idiota, proprio come suo suocero, e che ormai vivevano in un mondo senza Dio”. Ma si limita a replicare: “Katie non sarà il vostro laboratorio!”

Le Dame della Congregazione concedono a Tyler una domestica a ore, Conny Hatch, donna semplice e in età, sulla quale tuttavia si comincia ben presto a sparlare; corrono pettegolezzi, malignità e infine voci di una tresca con il Reverendo. La stessa madre vedova di Tyler, che abitando in una cittadina poco distante ha preso con sé la piccola Jeanne, comincia a dubitare del figlio e vorrebbe istallarsi nella sua casa per dominarlo completamente come ha sempre agognato, da prima che prendesse moglie. Il grosso Ministro del Culto per quanto tetragono alle accuse, comincia a perdere colpi: è stanco, logorato, le bambine appaiono sempre più trascurate, i suoi sermoni si spengono in monotone letture poco gradite. Avvertendolo debole, i parrocchiani si accaniscono contro di lui, ben sapendolo depositario delle segrete colpe di ognuno, apprese durante i tanti colloqui riservati. L’amato gregge non rappresenta altro che una umanità dolente e ferita, spesso responsabile di gravissimi peccati, che nel corso della narrazione affiorano un po’ alla volta in superficie come relitti di un  naufragio. La domestica, Connie, finirà addirittura in prigione per alcuni delitti commessi anni prima, in un atroce atto di pietà non diverso dalla colpa di cui forse il Reverendo si è macchiato nei riguardi dell’adorata Lauren. Sfinito, incapace di reagire,Tyler si rifugia nel suo seminario di Brockmorton, a casa del vecchio professore George Atwood che più di ogni altro lo ha formato nella sua vocazione. E lì, accudito insieme alle figlie con sapiente  misericordia,  riesce a ritrovare il senso della propria missione e la forza per non arrendersi. Così quando  ritorna a West Annet annunciando il suo sermone per la domenica successiva – di scuse? di addio? di invettive? – l’attesa della comunità si fa spasmodica: “Una dopo l’altra, le macchine si fermavano lentamente accanto alla chiesa, con i lunghi cofani affusolati fianco a fianco al centro del parcheggio. Le donne ne uscivano avvolgendosi una sciarpa attorno alla gola, tenendo la borsetta sul braccio”. Tyler bacia le bambine, le affida a sua madre perché le accompagni in classe, e si chiude in raccoglimento nello studio, sedendosi sul bordo della sedia: “Guarda, rispondimi, Signore, mio Dio, conserva la luce ai miei occhi … perché il mio nemico non dica: «L’ho vinto!», e non esultino i miei avversari se io vacillo. Ma io nella tua fedeltà ho confidato. Sii con me ora”. (Salmi, 13 4-6). Ciò che il Reverendo dirà, il lettore lo apprenderà direttamente dalle pagine.


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