L’ inabissato occidente di Mamet. Di scena al Teatro Eliseo di Roma con “China Doll”, in prima nazionale    

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Grande Mela, Manatthan, studio sontuoso e sobrio di uno Squalo dell’alta Finanza: quadri d’autore alle pareti, una immane scrivania, un divano in pelle, tutto virato su colori caldo-marrone, invoglianti alla concentrazione e alla esaltazione  dell’Ego, mentre medita ‘nuovi attacchi’agli assetti, alle strutture economiche che, in regime di post-democrazia verticale e verticistica, dominano i nuovi assetti planetari della globalizzazione allo stato brado.  Spossato e onusto  di un potere ormai “virtuosista” (come sempre monocorde  e fine a se stesso), e  nonostante l’asciutta vitalità di un corpo che si avvia con baldanza (aggressività) al tempo delle foglie secche, Mr. Ross, protagonista di questa memorabile, saettante opera di Mamet è un uomo (moravianamente?) avviato alla ‘noia della vittoria e del primato’ (da ricatto, astuzia o estremo delinquere nulla cambia), prostrato ma non domato dalla regola del comando, ottenuta attraverso la nota formula nordatlantica del ‘self made man’. Senza guardare in faccia nulla e nessuno, mirando al sodo come una possente macchina ‘cronenberghiana’ affrancata dal patema dei sentimenti e del nesso causa-effetti del proprio spietato lavoro.

Ma, si sa (almeno da Chandler, Hammett e Woolrich in poi):   non esiste ‘uomo di crimine’, specie se omologato alla società dell’opulenza usa-e-getta , che non abbia un suo debole, un suo tallone d’Achille. Nel caso di Mr. Ross (che Eros Pagni disegna con autorevolezza ombrosa e presaga del peggio, rendendo ozioso  il confronto  Al Pacino, primo ad interpretarlo a Broadway)), quello di  una “bambola cinese” di cui s’è  (ferocemente, sinuosamente) invaghito, non senza escludere (per tenerla a sé) la strisciante allusività del serpente smielato (“potrei sempre rimandarti nella latrina di esotici fiorellini donde ti prelevai”, le sussurra al telefono, a sangue freddo-cinico).

Presenza\ assenza (causa di vezzosità e gelosie senili), quella della ‘inafferrabile’ ragazza, incarnata  in tutte le conversazioni intercontinentali che l’uomo, ossessivamente, reitererà, per tutto l’itinerario di questo ‘strangolante’  kammerpiel al vetriolo : al netto delle trame oscure, segreti da fogna,  rivalità e  minacce che – dal  sottovuoto-bunker di    Manatthan –  l’uomo  riserverà a una variegata, invisibile bolgia di sodali, sottoposti, avversari in affari ‘ad ampio raggio’.  Se non fosse, inoltre (altra insidia in forma di ossequioso, timido apprendista),  che ad ascoltare,   annuire, annotare  tutte le porcherie che Mr. Ross pone in essere, in un crescendo parossistico di furibonde telefonate , non vi fosse una sorta di segretario tuttofare, umiliato, blandito ed offeso dalle  atrabiliari reazioni di un individuo braccato, alla fine, da se stesso e dalla tardiva vendetta di alcuni giudici che, in altri tempi, era riuscito a corrompere.

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Ammettiamo che, una volta tanto, da teatro si esce beneficamente turbati, perplessi, gonfi di interrogativi (verso se stesi e chi ci sta intorno). Riflettendo, ad esempio, su  un recente articolo di Irene Bignardi, dedicato ai racconti giovanili (in parte inediti) di Truman Capote, nel quale la scrittrice si chiede  se  può avere senso cercare o esigere, in letteratura o poesia, ‘valori etici’. Ovviamente no,è pacifico, tranne che non si tratti di letteratura didattica, patristica, esortativa ad istanze assolute e metafisiche.  Allo stesso modo:  in questa gran Gomorra, formato isteria e  talk show massmediatici,  che ha tanto sedotto la nostra specie, allorchè ‘gli spiriti animali’ del capitalismo vincente hanno mandato  al macero  (o al cimitero) ideologie e diritti basilari di  coesistenza e  dignità umana (Ginevra e Convenzioni internazionali contano nulla) ha ancora ‘peso’ chiedere (ansimare) “se l’economia, la finanza, la legge del profitto e del più forte” debbano uniformarsi ai principi etici- laici o religiosi- patrimonio dell’occidente sin dall’età del Rinascimento e delle successive intuizioni di Toqueville, Marx, Fourier, Keynes?

La risposta è no: per la semplice, amara ragione che lo ‘spirito animale’ è più consono, più basico allo ‘stato di natura’ lungo il quale l’homo ‘maledi’ e poi ‘sapiens’  ha progredito o regredito, prima di accettare (per convenienza diffusa) i precetti e le ‘sovrastrutture culturali’ di una moralità universale che dovrebbe (??) proteggere i deboli e arginare i più forti. Cui si prospetta – nucleo drammaturgico del piccolo capolavoro di Mamet- l’eventualità, anzi la certezza (nota sin dalle tragedie di Marlowe e Shakespeare) che nessun primato è eterno ed inestirpabile:  assodato che  prima o poi (proprio per ‘spirito animale’), giugerà lo ‘spodestatore’ che smembrerà in regicidio il corpo e le sostanze del  despota morente.

Scandito e narrato con deterministica, cronometrica precisione (palese l’intreccio e  l’atmosfera di certi film di Lumet, Pollack, Foley), “China doll” ricorda (a chi non lo sapesse già) la statura di uno scrittore (e regista di cinema) che ha già sviscerato la materia della ‘jungla americana ed universale’ in gioielli di analisi e umano (sobrio) cordoglio,  del calibro di “American Buffalo”,  “Edmond”, “Americani”- laddove il malato rapporto tra individuo e società,  stupidità e astuzia, sopraffazione e  rassegnazione inquina (e manda a morte) tutti i progetti e gli afflati di una convivenza interpersonale, meticcia, multietnica, idealizzata  a misura d’uomo. In genere sensibile (dipende dall’indole) solo ai richiami della foresta…


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