Il segnale da Londra e l’isteria anti-islamica

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di Paolo Naso (docente di Scienza politica e Giornalismo politico alla Sapienza e coordinatore del Consiglio per le relazioni con l’islam italiano)

Sempre indeciso tra politica e buffoneria, Beppe Grillo ha accolto l’elezione a sindaco di Londra di Sadiq Khan con una delle battute più infelici del suo repertorio: «Voglio vedere quando si farà saltare in aria a Westmister». Razzismo di borgata più che “British humor”, ma ogni occasione è buona per conquistare un titolo e spingere i candidati pentastellati in corsa alle amministrative.

Ma oltre che cattiva comicità, quella di Grillo è anche pessima politica: le sue antenne non colgono la grande novità che arriva da Londra, e cioè dalla capitale di un paese europeo da cui potrebbe partire il colpo letale all’Unione dei 28 stati. O, all’opposto, una scossa salutare perché l’Ue possa recuperare credibilità, energie, visione. Khan è un avvocato di origine pakistana, nato e cresciuto nelle case popolari che abbiamo imparato a conoscere nei film di Ken Loach o in cult movies come East is East o My beautiful laundrette; istruito e formato grazie alle borse di quel welfare britannico che per almeno tre decenni ha garantito un efficiente ascensore sociale ai figli degli immigrati di prima generazione.

Non solo. Il nuovo sindaco di Londra è l’espressione più tipica del militante laburista che, iniziando ad impegnarsi nel quartiere in cui vive, vent’anni dopo si trova a essere sindaco di una metropoli europea, trascinato da un partito di massa che lo ha formato, selezionato, candidato e sorretto, secondo lo schema classico di quella “vecchia politica” rottamata dai personalismi antidemocratici.

Khan è quindi il frutto maturo di quel multiculturalismo che per anni ha costituito la strategia con la quale il Regno Unito ha cercato di gestire la complessità etnica, religiosa e sociale derivata dalla massiccia presenza di immigrati provenienti dalle ex colonie di sua maestà. Oggi vediamo più netti i limiti di quel modello, incapace di trasformare la multiculturalità in interculturalità, il rispetto dei vari gruppi e delle loro tradizioni in un pluralismo dinamico e fecondo.

Ma resta aperta la domanda se quel modello fosse davvero peggiore di quello assimilazionista che, nella pretesa di uniformare tradizioni e stili di vita, ha creato ghetti e discriminazioni che hanno generato un aggressivo disagio sociale. Almeno il deprecato multiculturalismo anglosassone ha “riconosciuto” soggetti e comunità, cogliendone le potenzialità e valorizzandone il patrimonio sociale di cultura, tradizioni, modelli educativi, solidarismo.

Dietro questa elezione, quindi, c’è molto di più di una bella storia di emancipazione personale: c’è un pezzo della storia inglese in materia di immigrazione e integrazione.

Peccato che tanti analisti non se ne siano accorti e del neo-sindaco di Londra si siano limitati a sottolineare che è musulmano. Poco importa che, prima di questo e insieme a questo, Khan sia anche un figlio di immigrati, avvocato, militante per i diritti umani, laburista… Lo stigma che conta è che è musulmano, che forse legge il Corano e si immagina preghi cinque volte al giorno. Questa assolutizzazione del tratto islamico sta diventando una vera nevrosi isterica, in Europa come negli Usa. Ce lo conferma il semplice fatto che Obama per molti suoi concittadini resta “musulmano”; come scorre un brivido lungo la schiena quando si pensa al muro anti-islam invocato da Donald Trump e di fatto costruito dai nazionalisti europei che crescono tra Austria e Ungheria, con il plauso di Salvini, Le Pen e delle destre xenofobe di tutta Europa. Il loro non è il doveroso rifiuto del fondamentalismo, del radicalismo e del settarismo – che non sono patrimonio esclusivo dell’islam – ma un no all’islam tout court, da Averroè ai sufi, da ogni moschea a ogni Corano, da chi rivendica i diritti nell’islam a chi li combatte nel nome di una teocrazia premoderna. Una rondine non fa primavera e l’elezione di Khan potrebbe essere un segnale isolato, smentito dalle urne inglesi il prossimo 23 giugno: la “Brexit”, infatti, non sarebbe solo una sconfitta dell’europeismo degli inglesi. L’addio all’Europa segnerebbe anche il declino di un’intera politica di condivisione, integrazione e mutualità intra-europea. Una politica strettamente intrecciata a quella che ha portato Sadiq Khan alla Camera dei Comuni prima e alla London City Hall oggi.

(pubblicato su Confronti di giugno 2016)


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