Stregati dalla luce. Piero della Francesca. Indagine su un mito. Forlì, San Domenico

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Nel film cult di Valerio Zurlini “La prima notte di quiete”, Daniele Dominici (Alain Delon) professore di lettere al liceo di Rimini, accompagna a Monterchi con la sua vecchia Citroen, la bella studentessa Vanina di cui si è innamorato; porta la ragazza a visitare la Cappella di Santa Maria in Momentana, nel cimitero della cittadina, e le mostra l’immagine solenne e incantata della Vergine col ventre gonfio: “Attraverso i secoli – commenta – il destino ha scelto proprio la sua purezza. Lei ne sembra compresa, ma non felice: forse già sente oscuramente che quella vita misteriosa che giorno per giorno cresce in lei, finirà su una croce romana, come quella di un malfattore”. E per spiegare l’arcano recita i versi di Dante all’inizio del 31° Canto del Paradiso: “Vergine e madre, figlia del tuo figlio/ umile e alta più che creatura…” Un omaggio appassionato del regista alla Madonna del Parto che introduce il visitatore al mistero espressivo racchiuso nella ‘luce’ di Piero della Francesca. Ad essa, all’enigma della luce, è interamente dedicata la mostra che si è aperta ai Musei San Domenico di Forlì “Piero della Francesca /Indagine su un mito”.

Il cinema d’autore dunque si inchina al “monarca della pittura” così chiamato dal matematico contemporaneo fra Luca Pacioli, autore della “Divina proporzione”. E non è un richiamo isolato da parte della Settima Arte, come ben ricorda Marco A. Bazzocchi in uno degli splendidi e numerosi saggi che compongono l’opulento catalogo Silvana Editoriale. Anche Andrej Tarkovskij in “Nostalghia” dedica una sequenza alla Madonna di Monterchi; e un accenno al dipinto si trova persino nella sceneggiatura,  mai realizzata da Fellini, “In viaggio con Anita”. Inoltre Danilo Donati, costumista di Pier Paolo Pasolini, nel film “La ricotta” abbiglia i sacerdoti del sinedrio con i copricapo monumentali e i paramenti ‘copiati’ dalle “Storie della Vera Croce”. Un autentico saccheggio amoroso.

L’attualità di Piero esplode nella coscienza moderna grazie alla celebre monografia di Roberto Longhi del 1927, e alla riscoperta dell’artista di Borgo San Sepolcro lasciato a lungo nell’oblio. Da tale data Piero torna a dominare la scena pittorica, non soltanto del suo tempo ma anche dei secoli a venire. A renderlo così imprescindibile fu  l’originale applicazione della prospettiva (che il pittore indagò con minuziosa competenza anche in opere teoriche (“De prospectiva pingendi”), al punto che Vasari lo giudicò “miglior geometra che fusse ne’ tempi suoi”. A ciò si aggiunge lo stile personalissimo definito da una luce ferma, zenitale, sospesa, in grado di conferire ai personaggi un’immobilità arcaicizzante. Roberto Longhi riconduceva il canone alla “sintesi prospettica di forma-colore”: e Bernard Berenson, affascinato, lo interpretava come una sorta di “impersonalità”, di “non emotività”.

Per chi ama le coincidenze, l’artista termina la propria esistenza nell’anno stesso in cui Cristoforo Colombo sbarca nelle Americhe, il 1492, annunciando simbolicamente l’avvento di una nuova era.

Intorno a un esiguo gruppo di opere del Maestro, tra cui la celeberrima Madonna della Misericordia (non molto è rimasto e assai poco è trasferibile), i curatori della mostra allestiscono una sfrenata fanfara visiva, talvolta tirata per i capelli ma assai più spesso acuta e rivelatoria, di autori antichi e contemporanei in debito con il Maestro; a dimostrazione non solo di come l’arte non conosca cesure nel passaggio di consegne attraverso i secoli, ma soprattutto di come la figura di Piero rappresenti tuttora una inesauribile sorgente irradiante. “Proprio perché le sue opere sembrano così distaccate, così ermetiche, – annota Antonio Paolucci nella presentazione – tanto più cresce il desiderio di decifrarle”. E da sapiente ispiratore della rassegna pone la Romagna, anzi le Romagne e il Montefeltro, al centro del fenomeno pittorico fiorito tra il Tempio Malatestiano di Leon Battista Alberti a Rimini, la Signoria dei Malatesta e i Duchi di Urbino. Ad accoglierci nel percorso espositivo è infatti il busto marmoreo di Battista Sforza scolpito da Francesco Laurana frontale e ieratico come un idolo, simile a un’immagine da reliquario; la trasfigurazione scultorea  dell’inconfondibile aura di Piero. Veniamo così avvertiti dell’avventura che ci attende, ghiotta, avvincente, fantasiosa, e prodiga di trasalimenti. La luce metafisica inventata da Piero è riproposta dalla mostra in ogni sua declinazione, antica e moderna, fino all’emulazione estrosa e spregiudicata da parte della cultura di massa: pubblicità, grafica, a altre epifanie dell’immaginario collettivo del Novecento, il secolo pierfrancescano per eccellenza.

Il disvelamento di Longhi, oltre all’inevitabile riflessione sui precursori, crea un gran corteo di successori in Seurat, Degas, Cezanne. In Balthus! E oltre oceano nei dipinti di Edward Hopper, il quale sembra davvero assimilare l’insegnamento del biturgense nel restituire “la forma astratta della luce”.  Una vena che l’artista di Borgo San Sepolcro assorbì da Domenico Veneziano, e da altri grandi maestri del Quattrocento, prima di trasferirla nel suo stile inimitabile. Nelle gallerie del San Domenico figurano le meravigliose tavole del Beato Angelico, di Paolo Uccello, l’impareggiabile “Ester” di Andrea del Castagno,  le Madonne soavi, malinconiche e assorte di Filippo Lippi; e ancora i capolavori del Perugino, di Luca Signorelli, del Pinturicchio, di Melozzo da Forlì, di Antoniazzo Romano, del Palmezzano… Si accende un forte turbamento di fronte all’associazione con il “Cristo morto sorretto da quattro angeli” di Giovanni Bellini; o con la sua “Pietà” in cui una Maddalena palpitante di dolore e con le lacrime agli occhi, sorregge tra le dita delicate e carezzevoli la mano inanimata di Gesù.

Un ponte che si inarca fino all’800 italiano, Silvestro Lega, Zandomeneghi, Telemaco Signorini, per giungere di slancio a Carlo Carrà, Antonio Donghi, Giuseppe Capogrossi, Felice Casorati (il ritratto di Silvana Cenni è un’aperta citazione della Madonna della Misericordia). E ancora a Virgilio Guidi, Giorgio De Chirico, Achille Funi, Corrado Cagli, Massimo Campigli e, primo fra tutti, Giorgio Morandi.

Duecentocinquanta sono le opere da contemplare, di autori quasi tutti eccelsi; il visitatore scivola lungo il flusso degli anni trasportato da un unico alone di luce che inonda il presente. L’ultima sezione arriva a compimento con gli omaggi, le rivisitazioni, le dichiarazioni d’amore tributate nel XX secolo a Piero della Francesca – alle sue Storie della vera Croce, alla Flagellazione, alla Resurrezione, alla Madonna di Senigallia o del Parto, o di Brera –  dalla comunità artistica di ogni nazione: in Gran Bretagna Roger Fry e la Slade School; e poco più tardi in America da un’intera schiera di pittori che si esercitano nel nome di Piero, fino alle riscritture decontestualizzate di Andy Wharol.

Un evento da assaporare attentamente, grazie anche alla perfetta organizzazione, alla chiarezza dei testi in cuffia, alla cortesia davvero inappuntabile del personale (Forlì, fino al 26 giugno 2016).


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