Otto marzo apocalittico

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Oggi, otto marzo di un anno nero, ricomincio a scrivere dopo un lutto terribile: la perdita del mio amatissimo marito, Astrit Dakli, un uomo che, come disse una mia amica “anche una femminista può pensare di amare”. È per lui, per un uomo quindi, che scrivo in questa giornata dedicata alle donne, sapendo di andare controcorrente, perché come non basta una vagina per essere femminista così non basta avere un pene per essere maschilista. La questione è senza dubbio culturale, penso a donne che si atteggiano alla gestione di un potere maschile che non avranno mai in quanto femmine, e a uomini che tentano di mettere in discussione la loro identità pur di entrare in un più reale contatto con le donne.

Chi è femminista o meno, non ha importanza in questo caso, quello che è importante è chiedersi: chi migliora le cose? Chi rende migliore la convivenza umana?

La discriminazione di genere, così tante volte dibattuta, è una realtà innegabile: milioni di donne subiscono violenza maschile, le donne sono meno pagate degli uomini e fanno fatica a raggiungere apici nella carriera pur essendo più brave a scuola, interrompono il loro lavoro dopo il primo figlio perché non supportate da un welfare adeguato, in molti luoghi del mondo non hanno accesso alla tutela della propria salute, alla contraccezione, all’interruzione di gravidanza, a un parto sicuro, sono esposte a molestie per ricatto sul posto di lavoro, sono sotto rappresentate nella politica e nelle istituzioni, possono ritrovarsi infibulate, spose precoci, possono essere sottoposte a stupri etnici durante una guerra, possono essere trattate come semplici incubatrici produttrici di prole a pagamento, sottoposte a sfruttamento sessuale, schiavizzate. In tutto ciò politiche che osteggiano, o provvedono parzialmente e in modo paternalistico, alla risoluzione di questa discriminazione così ancora attuale nel mondo, non sono altro che l’espressione di un volontario sostegno di un sistema maschile di potere ancora ben saldo e resistente a un cambiamento profondo e radicale delle cose e per questo propenso a mantenere un certo tipo di mentalità.

Ma il maschilismo è un monopolio esclusivamente maschile o è ancora così radicato nella cultura da avere delle ottime sostenitrici nel genere femminile?

Ieri, mentre moderavo un interessante convegno sulla costituzione di parte civile delle associazioni nei giudizi per violenza sulle donne – organizzato dall’Associazione giuriste, l’Ordine degli avvocati e Telefono Rosa alla Cassazione di Roma – ho avuto la fortuna di ascoltare le ottime esposizioni da parte delle avvocate Caterina Flick e Antonella Faieta, ma soprattutto un esilarante intervento impostato con un taglio di genere, che nella mia testa solo una donna poteva fare, e che invece con mia grande sorpresa proveniva dal sostituto procuratore Eugenio Albamonte della Procura di Roma, che per spiegare le misure cautelari relative ai reati di violenza, ha inquadrato l’intero fenomeno con un ottica che raramente ho visto uscire da un cervello maschile: un intervento che mi ha fatto saltare dalla sedia perché non era esposto da chi certe cose non le ha imparate a memoria ma le ha comprese, le vive. E non parlo di paternalismo, come spesso è, ma di una reale presa in carico di una questione che riguarda uomini e donne, impostata attraverso un’ottica femminista nell’espletamento del proprio lavoro che in questo caso riguarda la violenza maschile sulle donne.

Un’assunzione che auspicheremmo come la normalità, e non l’eccezione, se a esercitare la professione ci fosse un uomo o una donna, e che vorremmo vedere espletata da tutti i giudic*, avvocat*, giornalist*, psicolog*, operator*, insegnat*, legislator* che si accingono ad affrontare il femminicidio con un approccio femminista e che avrebbe evitato, in questo Paese, obbrobri come la legge sulla violenza domestica passata con il pacchetto sicurezza nel 2013, o il piano antiviolenza straordinario del 2015 fatto senza capo né coda e rimasto sulla carta, o ancora peggio il codice bianco che equipara la violenza maschile sulle donne alla violenza sugli uomini dimostrando di non aver compreso nulla del fenomeno alla sue fondamenta.

E allora mi chiedo: perché le donne italiane sono ferme?

Quello che vedo intorno a me, e nel quale ho timore di rientrare, è un immenso groviglio di buone intenzioni e profonde difficoltà di una cultura maschilista che è ancora radicata saldamente nei corpi sia maschili che femminili. Il nodo non è solo la differenza di genere ma la piena assunzione di questa differenza con tutto ciò che questo comporta anche nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità, nelle proprie relazioni sia pubbliche che private, perché non basta dire o parlare: bisogna provare a viverla. Una consuetudine che a oggi sembra ancora un’utopia all’interno dello stesso movimento delle donne che in Italia sembrano dilaniate da una costante ricerca di cambiamento attraverso atteggiamenti che nella realtà ricalcano sempre di più comportamenti maschili che poco hanno a che fare con la forza rivoluzionaria del femminismo e che a volte hanno una aggressività imputata in teoria ai maschi ma ampiamente praticata, e non perché le donne non possano essere aggressive ma perché ciò è usato per esercitare un potere. Atteggiamento che porta inevitabilmente a spaccature e quindi a un’inazione ormai patologica, che non fa altro che mantenere uno status quo che sembra ineluttabilmente riportarci a un patriarcato di ritorno e che forse questa volta sarà senza ritorno. Donne che cavalcano senza rendersene conto l’onda esattamente contraria di quella su cui pensano di stare, in barba alla tanto sventagliata solidarietà femminile ormai diventata chimera del passato.

Mentre rotoliamo verso l’ineluttabile, in Italia però la controriforma procede spedita: i centri antiviolenza, dopo il lavoro svolto in tanti anni, sono stati estromessi dal contrasto alla violenza maschile con un colpo di mano che ha dirottato i finanziamenti sul ministero della salute e degli interni che si occuperanno in maniera del tutto inadeguata delle donne che approdano ignare a un pronto soccorso mandando a monte tutto il sapere accumulato da anni di lavoro sul campo con l’ottica di genere dei centri; donne che non usufruiranno mai della ratificata Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e la violenza sulle donne, che pur essendo legge in Italia non è applicata perché nessuno, nelle istituzioni, si sogna di farla applicare in maniera esaustiva e completa; donne che potrebbero essere multate fino a 10 mila euro se interrompono una gravidanza clandestinamente dato che il 75% del personale ospedaliero in Italia fa obiezione di coscienza.

Ma la frontiera del futuro è altrove ed è una guerra aperta sul mondo venturo che riguarda l’utero a pagamento che qui ha sbaragliato i sacrosanti diritti della comunità LGBT, compresa l’adozione, concentrando tutto, in maniera confusa e fuorviante, sulla capitalizzazione di un utero che serve solo a uomini impossibilitati a fecondare da soli il proprio seme (problema che le donne anche lesbiche non hanno a meno che non siano sterili). Un utero che decontestualizzato dal corpo femminile e reso merce su cui contrattare in base alla legge del consumo e della proprietà, trasformerebbe le madri e madonne del passato in una laica incubatrice a gettoni: un futuro in cui potrebbero essere gli uomini stessi che, avendo ancora saldo il potere nelle proprie mani, potrebbero programmarsi anche i propri figli con connotazioni genetiche precise, usando semplicemente il corpo delle donne come accessorio, e questo magari fino a quando saranno in grado di costruire un utero artificiale e al di là delle proprie scelte sessuali.

Il futuro dell’umanità si gioca più di prima sul corpo delle donne, e secondo me gli uomini ce l’hanno più chiaro di molte donne.


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