L’Iran dei giovani guarda al futuro

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Prevale la linea moderata e riformista di Hassan Rouhani, prevale il buonsenso, prevalgono le aperture dell’Occidente e il ritorno sulla scena internazionale di un Paese che può legittimamente ambire ad esercitare un ruolo di guida sulla regione mediorientale e prevale, infine, il percorso iniziato tre anni fa, in seguito all’archiviazione della triste parentesi isolazionista e di radicalizzazione estrema incarnata dalla figura di Ahmadinejad.

Al che è opportuno placare gli entusiasmi e valutare con il giusto distacco quanto è realmente accaduto a Teheran e dintorni in occasione delle recenti elezioni. Cominciamo col dire che Rouhani, per quanto sia un personaggio senz’altro preferibile rispetto al fondamentalismo del predecessore e ai sostenitori dell’integralismo oscurantista che regna in Iran dai tempi della rivoluzione khomeinista, non ha nulla a che spartire con qualsivoglia leadership occidentale. Non è un uomo di centro o di sinistra, per intendersi: è un diplomatico, capace di trattare ai tavoli che contano, di intessere relazioni di apprezzabile convivenza anche con i paesi più ostili, a cominciare dagli Stati Uniti, e di condurre la propria nazione fuori dal tunnel delle sanzioni e dell’esclusione mondiale nel quale l’aveva confinata un governo impresentabile, in patria e fuori.

A tal proposito, basti pensare alle figure barbine rimediate da Ahmadinejad alle Nazioni Unite, quando partiva lancia in resta attaccando violentemente Israele, suscitando lo sdegno pressoché unanime dei presenti, i quali abbandonavano la sala e lo lasciavano a parlare da solo di fronte a una platea vuota. Basti pensare al massacro compiuto ai danni degli oppositori nel 2009, quando si impose con la forza dopo aver conseguito una vittoria elettorale pesantemente inquinata dai brogli ai danni del rivale Mousavi. Basti pensare al fatto che Iran era diventato sinonimo di minaccia globale, inaffidabilità e pericolo per una zona che è già di per sé, da sempre, una polveriera.

E così nel 2013, almeno questa è la nostra convinzione, anche l’ayatollah Ali Khamenei, guida suprema del paese, deve essersi conto dell’insostenibilità di un soggetto del genere e deve aver pensato che sostituirlo fosse l’unico modo per evitare che l’Iran sprofondasse nel baratro, sottoposto com’era a sanzioni durissime e ad un isolamento internazionale che stava provocando un malcontento e un malessere interno sempre più difficili da contenere.

Da allora è cambiato molto: l’Iran si è aperto, in estate, a Vienna, è stato raggiunto uno storico accordo sul nucleare, i rapporti con l’Occidente si sono stabilizzati, con l’America è scoppiata una tregua guardinga ma comunque fruttuosa, dovuta anche alla necessità di contrastare l’avanzata del Daesh, e l’asse con la Russia di Putin è ormai più saldo che mai, in nome del contrasto senza infingimenti nei confronti della frangia jihadista del mondo sunnita e waahhabita. L’unico paese col quale il governo iraniano continua a non avere buoni rapporti è Israele, ma se con Ahmadinejad era ancora lecito parlare di un concorso di colpa, da quando c’è Rouhani bisogna prendere atto che l’unico leader mondiale che persevera in un’inutile e controproducente caccia alle streghe, rifiutandosi di riconoscere i numerosi ed evidenti passi avanti compiuti dalle parti di Teheran, è quel retrogrado guerrafondaio di Netanyahu: la peggiore disgrazia che potesse capitare a Israele in una fase storica nella quale ci sarebbe più che mai bisogno di pacatezza e buonsenso.

L’altro dato da porre in risalto, in un Paese composto per il 70 per cento da giovani, sono i sogni, le speranze e le aspirazioni della gioventù iraniana, la quale, a quasi quarant’anni dalla rivoluzione conservatrice di Khomeyni, ha nuovamente voglia, e non da oggi, di aprirsi al mondo, di guardare al domani, di viaggiare, di studiare le lingue, di ascoltare ogni genere di musica e, nel caso delle donne, di truccarsi un po’, di andare in giro meno velate, di raggiungere se non la piena parità di diritti nei confronti degli uomini comunque un rapporto meno iniquo e sbilanciato a favore di questi ultimi.

Non a caso, nel nuovo parlamento iraniano saranno presenti anche tredici donne, a dimostrazione che ormai il processo verso le conquiste sociali e civili si è messo in cammino e sarà difficile da arrestare.

L’importante, per quanto riguarda noi occidentali, sarà consentire all’Iran di percorrere la sua strada senza forzature, senza richieste eccessive e insostenibili e senza pretendere, come spesso abbiamo fatto in passato, di imporre i nostri usi e costumi ad un paese che non sarà mai minimamente paragonabile a una sola delle nostre società e che è bene che trovi in autonomia il proprio modo di convivere pacificamente, al suo interno e con il resto del pianeta.

Rouhani, infine, conferma le sue doti di traghettatore: un nocchiero esperto, al pari dell’alleato ed ex presidente Rafsanjani, e in grado di guidare il suo popolo verso la modernità e la presa di coscienza che un altro modello di società è possibile e nient’affatto in contrasto con i princìpi dell’Islam.

A questo punto, c’è solo da auspicare che a novembre gli Stati Uniti non commettano l’errore esiziale di affidarsi a un altro “esportatore di democrazia”, in quanto la nostra pseudo-democrazia in quell’area ha già causato abbastanza disastri, primo fra tutti l’ISIS, con la non piccola differenza che l’Iraq ha una popolazione che è meno della metà di quella iraniana e che se nella Terza guerra mondiale differita di cui parla papa Francesco dovesse essere coinvolta a pieno titolo l’Antica Persia, il rischio di una destabilizzazione irrimediabile degli equilibri mondiali si trasformerebbe in una certezza, con le conseguenze che tutti i conflitti destinati a durare a lungo portano con sé.


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