“Il servizio pubblico? Si deve rifondare completamente e reinventare”. Intervista a Giancarlo Santalmassi

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Il 15 marzo del 1976 andarono in onda per la prima volta due diversi telegiornali della Rai: il TG1 alle 20 sul primo canale e il TG2 alle 19,45 sul secondo canale: non era una distinzione formale, non era una questione di sigle. Era un cambiamento epocale. Ci facciamo raccontare quella rivoluzione dell’informazione televisiva da uno dei principali protagonisti, allora giornalista in quella che era la maggiore novità, il TG2. Giancarlo Santalmassi (nella foto) al TG2 è stato inviato di punta, conduttore e capo redattore, ha condotto molte trasmissioni radiofoniche e televisive di successo, ha diretto la radiofonia della Rai, poi Radio 24 de “Il sole 24 ore” e ora è responsabile di un importante sito informativo, “Inpiù”.

Il 15 marzo di 40 anni fa andarono in onda le prime edizioni del TG1 e del TG2 come testate autonome, frutto della riforma della Rai del 1975. Fu una rivoluzione che oggi è quanto mai opportuno ricordare. Mi racconti quel giorno e come il TG2 diretto da Andrea Barbato era arrivato a quell’appuntamento…

Il 15 marzo del 1976 per questo paese fu un giorno equivalente, paragonabile a livello europeo al changeover, la nascita dell’euro. Sembra un’esagerazione Ma in realtà non lo è. Fu un cambio culturale con pochi precedenti. Era un lunedì. E fino a ieri (domenica 14 marzo) la Rai per 30anni era stata sotto il controllo del governo. Era in corso il congresso del PSDI,  a Firenze. E fino a quella domenica i reportage erano ‘classici’: “il segretario uscente Tanassi nel suo discorso….”, “Lo sfidante Nicolazzi ha detto…..”. Compunti e ordinati. Io c’ero, mandato da Andrea Barbato il primo direttore del TG2, a raccogliere il testimone del collega del Tg unico fino a ieri.

Quello che non si era visto nei reportage fino a domenica erano gli aeroplanini di carta che solcavano l’atmosfera del palazzo dei congressi di Firenze, perché il partito era squassato dal primo grande scandalo della politica italiana, quello della Lockheed. Vi erano rimasti impigliati un socialdemocratico, Mario Tanassi gia ministro della difesa, e due democristiani, Mariano Rumor e Luigi Gui. Uno scandalo, mondiale per la verità, che travolse la corona olandese e anche il primo ministro del Giappone.
Cominciai con una atmosfera da stadio, i buuuuuh della curva, gli aeroplanini che volteggiavano, i fischi della platea. Una vera, inedita, bolgia mai vista. Una rappresentazione plastica del cambio del tempo, una anticipazione del paese che sarebbe cambiato in modo da quel momento accelerato. Era finita la TV controllata e tranquillizzante: una chiave determinante per capire l’immutabilità del potere DC, prolungatosi di qualche anno in più proprio grazie al monopolio sulla TV.

A quell’appuntamento (non il congresso Psdi, ma la nascita di un pluralismo informativo: il TG2 e il secondo canale finivano sotto controllo socialista, mentre TG1 e Raiuno restavano in mano democristiana) il TG2 si era preparato con una sapiente (e deludente, poi spiegherò perché) gestione delle opzioni. Entro il 1975 si era svolto un rito unico nella storia aziendale: cioè ogni giornalista era stato chiamato a esprimere la preferenza su con chi andare a lavorare l’anno successivo, se col cattolico Emilio Rossi o il laico Andrea Barbato. Svoltosi con cautela, nel senso che non si sapeva se tutte le scelte sarebbero state accolte; si diceva che se fossero state ‘sbilanciate’ (nel senso che le preferenze erano troppe per una delle testate), l’azienda sarebbe intervenuta per un riequilibrio. E restava aperta per il giornalista la possibilità di un ripensamento dopo il colloquio avuto col direttore scelto, che si impegnava a parlare con tutti. Ma furono casi sporadicissimi, e l’operazione opzione riuscì.

Cosa intendo per deludente? Il TG1 e i cattolici erano in allarme per quel futuro che era in discontinuità e rompeva il controllo totale del passato. Confermato dalle indiscrezioni sui risultati delle opzioni.
Chi aveva scelto il TG2? Tutti coloro che erano cresciuti con i cosiddetti approfondimenti (le redazioni di tv7, AZ un fatto come perché, i giornalisti autori di programmi delle reti), mentre al TG1 restavano per la maggior parte quelli che già facevano i notiziari, con servizi che non spiegavano molto, linguaggi che rassicuravano, grande asetticità.

In effetti il TG2 non si poteva definire socialista, e ricordo bene che le tensioni fra Barbato e i socialisti scoppiarono proprio perché grandi firme del giornale erano di impronta comunista: gli editoriali di Giuseppe Fiori, lo storico di Gramsci, la conduzione di Tito Cortese, le note beffarde di Emmanuele Rocco, ex de L’Unità.
La sera dell’esordio del TG2 che aveva il sottotitolo significativo di Studio Aperto e cominciava alle 19,45, un pensionato era stato investito sulla terrazza del Pincio da un’auto inavvertitamente messa in moto con la marcia ingranata e aveva abbattuto il parapetto del Pincio fermandosi sul ciglio, ma scagliando il pensionato nel vuoto. Ebbene, per marcare la differenza….almeno mezz’ora di quel Tg fu dedicata a quell’episodio. Ma a parte questa ingenuità dell’esordio, la delusione fu per i risultati di ascolto. Al TG1 temevano il sorpasso. Non ci fu mai. Si polemizzò coi vecchi televisori che si riaccendevano automaticamente sul canale 1 e non sull’ultimo acceso, insomma era caccia all’avversario occulto.
In realtà la divisione in due telegiornali indipendenti, aveva fatto intuire al direttore di Rai1 Mimmo Scarano l’importanza del traino. Intimoriti dall’anticipo di un quarto d’ora del TG2, Scarano non solo rassicurò puntando sul conservatorismo del pubblico televisivo italiano (“Vedrete, il Tg delle 20 sarà sempre il Tg delle 20” diceva sorridendo) ma soprattutto capì che chi trainava nel pre telegiornale della sera a quell’ora era il pubblico dei ragazzi. E ci vollero anni al TG2 perché capissero che il nemico del TG2 non era il TG1 ma “Furia cavallo del west”, un programmino da TV dei ragazzi che monopolizzò sul primo canale l’ascolto delle famiglie.

Oggi la Rai è tornata ad essere sotto il diretto potere del governo, come prima della legge del 75 che spostò l’asse sul parlamento: si è sempre detto che quella scelta favorì la lottizzazione, ma oggi? Sembra un po’ difficile pensare che la politica sia uscita dalla Rai…o no?

Non credo che sia possibile cacciare la politica fuori della Rai. A ogni tornata di nomine lo si scopre tra le polemiche. Dopo queste ultime, ad esempio, Angelo Guglielmi da’ valore alla qualità del progetto e come cambiamento avrebbe preferito la chiamata a una direzione di Michele Santoro. Che tuttavia sono trent’anni che fa sempre lo stesso programma. E non facciamoci illusioni. A parte forse gli Stati Uniti, la politica influenza ovunque la TV. Altrove più nobilmente, altrove in modo peggiore. Dipende dalla qualità della politica italiana. Finché l’azienda in questione ha come prodotto istituzionale non tanto informazione, cultura e intrattenimento, ma la tranquillità dell’editore che dal 1976 sono comunque i partiti e, in ogni caso, il governo.
Solo così si capisce perché una nomina viene comunque mantenuta anche se fallimentare: il partito lo tiene lì comunque perché avrà il suo tornaconto, in termini di informazione addomesticata, o di appalti ad amici. E’ vano pretendere, come ha fatto inutilmente infatti per anni Reset di Giancarlo Bosetti, dei passi indietro. Anche perché la Rai è parte integrante anche se indiretta del sistema di finanziamento della politica. In Italia si è obiettato con molto favore che la Rai andrebbe privatizzata, perché in Italia ciò che è pubblico viene sempre interpretato come partitico. E quando si sono tenuti dei referendum – per conservare la TV pubblica e impedire a Mediaset la simmetria delle tre reti- gli esiti furono che si ricordò che la corte costituzionale aveva stabilito che la Rai poteva (anche se non ‘doveva’) essere privatizzata e Mediaset poteva conservare la simmetria. Cioè le sue tre reti

Quando, ai tempi in cui il tg dove lavoravi si chiamava il telegiornale del secondo programma, tu proponesti una conduzione all’americana, giornalista protagonista e non lettore, quello che ci avrebbe fatto capire il ruolo dell’ancor man, quali furono le reazioni? E’ vero che la categoria dei giornalisti è sempre un po’ lenta e refrattaria ai cambiamenti?

In effetti fui autore di una conduzione di rottura. Cercavo di spiegare il senso delle notizie che davo al mio destinatario, a chi mi ascoltava, e non al palazzo che le produceva. I giornalisti sono conservatori, certo. Si pensa più a se che all’azienda pubblica….al tornaconto sindacale che al destinatario del prodotto. I segnali ci sono anche oggi. Dice nulla che sul caso di Giulio Regeni ucciso al Cairo vengano più notizie dal NyTimes che dai nostri giornali (e per fortuna che Articolo21 se ne occupa)? Che un film come Spotlight rechi in chiusura la didascalia che il cardinale di Boston Lowe è stato nascosto da Woytila a Santa Maria Maggiore e nessun giornale italiano ha fatto una inchiesta sulla lobby dei monsignori pedofili che nella curia vaticana ha fatto il bello è il cattivo tempo? Magari dopo l’Oscar qualcuno si muoverà…

Oggi però molto è cambiato: i giornalisti sembrano sempre più perduti in un mare di notizie via web, twitter, facebook, e la paura degli editori è di dover chiudere i giornali di carta, come per alcune realtà sta succedendo: pensi che sia un percorso segnato o invece i media troveranno la strada per continuare a convivere e integrarsi?

In effetti con il web il mestiere di giornalista è profondamente in crisi. Tra notizie false che sembrano vere, notizie verosimili e notizie fondate, la differenza sfuma, si fa inafferrabile. Settecentomila ‘mi piace’ sembrano rendere una notizia inventata una notizia vera. La gente, spesso nemmeno legge sul web quello che poi sostiene le piaccia. Per mettere un pollice in su spesso basta vedere la bella foto allegata, un video virale, una musica deduttiva. Ma settecentomila ‘mi piace’ non fanno di una notizia falsa una notizia vera. Il web e’ un linguaggio. Spesso i giornali ‘.it’ sono in crisi perché come è come se fossero solo di carta stampata. I pezzi scritti della lunghezza della carta non funzionano. Il web, visto che non ha limiti di spazio è di altro, spesso dà spazio allo sfogo, alle frustrazioni da scrittore del giornalista. Ma non funziona. Ogni strumento ha il suo linguaggio, e se non lo si parla, il contenuto non parte.

L’integrazione tra strumenti e’ una tappa intermedia necessaria, ma solo di passaggio. Fare a meno della carta vuol dire risparmiare tra materia prima e distribuzione oltre la metà del costo di una testata tradizionale. Il problema è che un editore in fondo sogna il giornale senza giornalisti. Esistono aggregatori automatici di notizie, notiziari che continuano ad uscire nonostante la morte del collega che lo ha pensato e realizzato, in solitudine. E software che ti fanno scegliere lo stile in cui scrivere automaticamente delle notizie (vuoi lo stile Biagi? Vuoi quello Cronkite?). I modelli non mancano e i software nemmeno. È un momento difficilissimo, un cambio epocale che si controlla con molta fatica e forse al momento non ci si riesce….

In questo continuo moltiplicarsi dell’offerta che ruolo, che missione e che spazio dovrà avere il servizio pubblico in Europa e soprattutto in Italia?

Il servizio pubblico?  Si deve rifondare completamente. Reinventare. E non sarà facile. Come tutti i dati culturali, è l’evoluzione più lenta e complessa da ottenere. Ho sempre sostenuto che una informazione corretta e rispettosa delle verità, sarebbe stata più che sufficiente, senza arrivare alla lottizzazione per testate tra partiti. Ma la storia del Giornale Radio, prima area riformata della Rai nel 1994, con un direttore e una sola testata sta lì a dimostrare la difficoltà dell’operazione. Nei corridoi, fuori della stanza di Livio Zanetti, il direttore, e la mia (Condirettore) si sentiva continuamente sussurrare: ‘resistiamo che ci restituiscono le testate…”.

Ho il dubbio che niente sia cambiato, e infatti gli altri tentativi di riduzione di testate (magari due sole newsroom) e riorganizzazione del prodotto giornalistico sono andati a vuoto nel corso degli anni. Questo è il compito più difficile che avrà Carlo Verdelli. Che sembra avere le idee chiare se il primo cenno sembra essere quello di trasformare Rainews24 in un service per fornire servizi alle testate.


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