Turchia: #freehayri. 32 giornalisti in carcere

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Sale a 32 il numero dei giornalisti in carcere in Turchia. Ieri Hayri Tunç, scrittore e corrispondente di Jiyan.org, è stato prelevato dalla sua abitazione a Bayrampaşa, portato al Dipartimento anti-terrorismo di Istanbul e infine arrestato con l’accusa di “propaganda terroristica”: non perché avesse realizzato un’inchiesta, non perché avesse filmato quel che non si sarebbe dovuto vedere, ma semplicemente per aver condiviso dei contenuti sui social media col profilo.

Lo avevano già imprigionato a ottobre per i suoi post e i suoi articoli su Jiyan: era stato rilasciato due giorni dopo, ma nel frattempo le autorità turche avevano oscurato il sito Jiyan.org e il dipartimento della sicurezza del primo ministro aveva chiuso il suo profilo Twitter personale (‪@tuncfeyz)‪.
Giovedì Nuri Akman, reporter di DIHA, è stato arrestato a Malatya, con l’accusa di essere membro di un’organizzazione terroristica. Mentre Ayse Kara e Eren Siverek, giornalisti di Ozgur Gun Tv sono detenuti a Nusaybin da quando c’è stata la rivolta dei civili contro il coprifuoco imposto dal governo.
Questi arresti hanno un minimo comune denominatore: sono tutti giornalisti che volevano documentare la situazione nel sud-est della Turchia, nelle città a maggioranza curda.
Per capire cosa accade a un giornalista nella suo lavoro quotidiano guardate questo video:

Sembra un arresto in flagranza di reato. Avere una telecamera in mano, per la polizia, è come detenere una bomba o un carico di droga. Alla giornalista che sta riprendendo quello che accade a Diyarbakir non vengono nemmeno chiesti i documenti, nessuno le chiede cosa stia facendo e per quale emittente televisiva lavori: da un blindato dell’esercito turco scende (presumibilmente) un militare (che non si identifica), carica brutalmente la reporter sul mezzo e chiude i portelloni. Cosa sia accaduto dopo non è dato sapere. Certo a noi resta l’immagine – che si aggiunge alle molte altre che in questi mesi sono arrivate dalla Turchia – di come il mestiere di giornalista sia ritenuto impossibile da tollerare dal Capo dello Stato, Recep Tayyip Erdoğan.
Nessuno può documentare la strisciante guerra civile che avviene sulle terre dell’antico Kurdistan turco. Da quando Erdoğan ha interrotto i negoziati di pace col Pkk (in prossimità delle elezioni anticipate che vedevano i nazionalisti come tassello importante per la vittoria) e ha imposto il coprifuoco in molte città a maggioranza curda è difficile persino contare i morti, come ci ha raccontato Dora di “Giuristi Democratici” appena tornata da Diyarbakir: nel quartiere di Sur non è permesso entrare nemmeno alle delegazioni internazionali, nemmeno a medici e infermieri. Le organizzazioni per i diritti umani stimano, solo negli ultimi mesi, oltre 160 morti tra i civili, di cui quasi la metà sono donne, bambini o uomini ultrasessantenni. È in corso un vero e proprio esodo che nessuno vuole – e ormai nemmeno può – raccontare: si stima che da agosto se ne siano andate oltre 22.000 persone, stremate dall’assedio e dai bombardamenti. Da quelle città sono arrivate immagini drammatiche: cadaveri lasciati decomporre per giorni sulle strade, polizia turca che spara contro civili con la bandiera bianca in mano, persone morte dissanguate in attesa di ambulanze bloccate dai carriarmati. Una violazione sistematica dei diritti umani che avviene nel silenzio quasi generale dei media internazionali.
Esiste certamente una dose di ipocrisia e calcolo di convenienza nel non raccontare la guerra civile in Turchia, ma è pur vero – sempre più – che, per qualunque giornalista, raccontare è diventato ormai quasi impossibile, se non a rischio della propria vita: c’è chi viene ammazzato in mezzo alla strada durante una diretta televisiva come Thair Elci, avvocato difensore dei diritti umani, chi viene arrestato con l’accusa di sostegno al terrorismo come i giornalisti di Vice solo perché hanno acceso una telecamera nei quartieri curdi, chi è costretto a riprendere i morti con la telecamera schizzata di sangue come Refik Tekin il cameramen di IMC TV, ferito a una gamba durante gli scontri e poi arrestato sul letto dell’ospedale con l’accusa di sostenere il Pkk.
Tra il calcolo politico di chi preferisce chiudere gli occhi e la repressione costante dei media da parte delle autorità turche, qualsiasi tipo di verità viene oscurata.


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