Se il dolore si espande nelle carni – La Via Crucis di Botero al Palaexpo

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Crea un effetto spiazzante la Via Crucis di Fernando Botero in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma  (fino al 1° maggio) nell’Anno del Giubileo Speciale della Misericordia indetto da Papa Bergoglio, e in onore della Pasqua ormai alle porte. E non è un caso che le 27 opere a olio e i 36 disegni preparatori della Passione di Cristo, risalgano a un’altra Pasqua importante, del 2012, in cui il pittore colombiano per festeggiare i suoi ottant’anni regalò il ciclo sul tema sacro al Museo d’Antioquia di Medellin, sua città natale.

Abituati alle Veneri grassocce e gaudenti delle sue tele, ci sorprende ritrovare quei corpi opulenti e massicci nella messa in scena delle stazioni del dolore; a una prima occhiata proviamo persino un irriverente divertimento, malgrado l’autore ci avverta: “Non ci sono elementi  satirici in questo lavoro che è pervaso di grande rispetto”.

Del resto non è la prima volta che Botero evade, usando le parole di Vargas Llosa, dalla “sua estetica atemporale, edonistica e indifferente”, per rappresentare il mondo lacerato e sanguinante che grida oltre il proprio recinto incantato; avvenne già per La Violencia en Colombia (ora al Museo Nacional de Colombia), e di nuovo per Abu Ghraib, gli 80 dipinti sulle torture del famigerato carcere americano in Iraq, lasciati poi in dono, fra gran clamore di polemiche, alla californiana Università di Berkeley. L’autore aveva già le idee ben chiare: “Quando i giornali smettono di parlare e la gente smette di parlare, l’arte rimane”. Ben consapevole di quanto gli artisti siano stati in ogni epoca testimoni del tempo, chiamati a custodire la memoria per le generazioni future. Lui aveva negli occhi le fucilazioni di Goya, o Guernica di Picasso: chi ricorderebbe oggi quegli eventi senza il pennello dei due grandi maestri?

Il vissuto di Botero è intriso della lezione pittorica del passato. Dopo essersi trasferito in Europa per studiare arte all’Accademia di Barcellona, già nel ’52 si stabilisce a Firenze per immergersi nella maestria di Piero della Francesca, di Paolo Uccello, degli altri maestri del Rinascimento (la Toscana è la sua seconda patria, ancora oggi possiede un atelier a Pietrasanta). Inseguiva l’aspirazione a riproporre i temi di quegli artisti inarrivabili inventando un canone che fosse esclusivamente suo, uno sguardo inconfondibile, senza precedenti. Era l’ambizione di un visionario che osserva la realtà con gli occhi di un bambino, dilatandone i contorni, le misure, le proporzioni.

Prendono vita così le sue celebri figure extralarge che incontrano un immediato successo presso il pubblico affascinato da quel trionfo di carne rosea capace di recare con sé gioia e sensualità. Sono donne e uomini (ma anche bambini e animali) di un ameno kindergarten; attonite maliarde, nude davanti allo specchio o sdraiate sul canapè, che sembrano bambine pantografate per il voluttuoso banchetto di un orco. Creature discinte, allegre, circensi, amorose, immagini di un ottimismo reso plastico dall’esuberante rotondeggiare di ogni linea.

Come si coniuga tutto ciò con il racconto più tragico che accompagna l’umanità dal giorno in cui Dio stesso scelse di scendere sulla Terra per affrontare l’estremo sacrificio della croce? La spiegazione è riposta appunto nella visionarietà dell’autore il quale invece di mettere il proprio talento al servizio della verosimiglianza,  attrae qualsiasi soggetto nella propria ipostasi e lo deforma attraverso una singolare lente d’ingrandimento. L’universo di Botero – alla pari di quello immaginifico di un fanciullo, o della Paperopoli di Walt Disney – può inglobare qualsiasi mito della fantasia umana e riplasmarlo senza alcun tradimento, rinnovandone anzi la carica emotiva e  semantica, esaltandone il messaggio originale.  Non ci disturberebbe affatto una versione oversize della bella Elena con il suo Paride, né di Ulisse e le Sirene, e neppure di Re Artù, Ginevra e Lancillotto, o qualsiasi altra illustrazione di chanson de geste; perché ogni azione, ogni carattere abita un mondo perfettamente coerente e definito, dove anche i cani sono grassi, gli alberi e le nuvole.

Così l’iniziale trasalimento presto si acquieta davanti alle 14 stazioni della Via Crucis, dove il sacrificio di Gesù mescola tra loro le epoche storiche e i comprimari del deicidio; l’iconografia classica convive con il pubblico in abiti moderni che assiste indifferente al martirio; poliziotti in divisa verde con il manganello alzato agiscono accanto a soldati di Pilato con il flagello e la corona di spine. Il pathos riaffiora con rinnovata intensità. Il gesto di Simone di Cirene che in camicia e pantaloni aiuta il Nazareno a risollevare la croce, evoca da vicino la nostra disperata quotidianità; e persino la Veronica è una matrona in tubino blu che, in lacrime, deterge il volto del Salvatore con il telo di lino su cui si imprime per sempre il divino sembiante.

Il dolore espresso da Botero è senza aggettivi; lo strazio di Maria è lo stesso di tutte le madri di fronte al figlio morto; il bacio di Giuda, unica presenza contemporanea in mezzo a una folla di antichi romani, esprime l’essenza stessa di ogni tradimento.

Le scene sono di un cromatismo abbagliante, preso forse in prestito da Pontormo, Andrea del Sarto, Rosso Fiorentino; come già fece Pier Paolo Pasolini nel film “La ricotta”.

E incombe davvero poderosa la Crocifissione (206×150 cm) con la croce infissa nel bel mezzo del Central Park contro lo skyline dei grattacieli di NY. In basso, minuscoli su un sentiero che attraversa in lontananza il parco, scorgiamo a malapena chi passeggia col cane e chi fa jogging, chi spinge il  passeggino o avanza appoggiato al bastone, chi scivola sullo skateboard o tiene per mano un bambino. “Spero che questi dipinti fungano da testimonianza per tanto tempo”. Scrive l’artista di Medellin; rivelando quanto importanti siano stati per lui Duccio di Boninsegna, Giotto e Masaccio. E Matthias Grünewald, il pittore tedesco del Cinquecento verso cui non trattiene l’ammirazione: “Dipinse le più orribili immagini della crocifissione. Niente potrebbe essere più orribile”.

Testi e figure sono ottimamente consultabili nel bel catalogo di Silvana Editoriale.


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