Le lavoratrici della Saeco. Sacrificio e resistenza

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L’epilogo è triste, lo sarebbe stato comunque. Con lieto fine o meno. Nella sera dell’ultimo giorno di presidio, l’ultima notte di guardia, la 73esima, c’è l’allegria della fine di una lotta durissima e c’è la tristezza dell’addio. In questi giorni sotto a quei tendoni di plastica, tra quelle cucine improvvisate, nei miseri giacigli a sbarrare la strada agli enormi tir rossi, si è consumata la paura di non sapere dove e quando il presente sarebbe franato, c’è la sorpresa per le amicizie donate da un destino peraltro avaro, c’è la soddisfazione di scoprire dentro di sé risorse sconosciute, e c’è la desolazione per sentirsi impotenti davanti a quello che un tempo chiamavano padrone e che ora si chiama azienda, dirigenza, multinazionale, ma che in sostanza si muove da padrone, sopra le regole, sopra le vite. Per 73 giorni sempre lì, distese a terra, avvolte in più strati di coperte di pile, a pochi centimetri dal fuoco che schiocca e scintilla nervoso. Quasi come una sfida, i lapilli che partono dal bidone d’olio industriale usato come fornace, lambiscono le coperte acriliche e qualche volta le raggiungono, posandosi ed incendiandole appena, spente con una manata, lasciano sul tessuto peloso buchi circolari. Dopo una sola notte la coperta è già traforata. Ogni buco, una medaglia. Cento buchi, un’altra notte passata all’addiaccio, a difendere il posto di lavoro, che in quei luoghi, nella valle dell’alto Reno, significa difendere la vita di tutta la montagna.

Le donne della Saeco. Un esercito di 400 lavoratrici che con le loro mani, costruiscono da 30 anni quello che era un sogno, la macchina da caffè automatica, un elettrodomestico ormai presente in tutte le case, in tutti gli uffici, in tutte le stazioni, aeroporti. Eppure è nato lì, nel pieno Appennino bolognese, al confine fra Emilia e Toscana, dove la parlata un po’ si ibrida, fra il pistoiese, il bolognese, e i cento accenti del meridione, da dove sono accorsi nei decenni passati, giovani speranzosi di trovare un posto di lavoro sicuro, in un lembo d’Italia buono per far crescere i propri figli. Una storia fatta di una rapida ascesa negli anni 80 e 90, 5 stabilimenti, tutti incastonati sul piede della montagna, negli unici spazi piani concessi dalla natura, costruiti quasi con ostinazione, dato che a pochi chilometri si apre, inutilmente maestosa, la pianura padana. Eppure l’imprenditore che abbe l’idea, la volle lì la fabbrica, a dare un piglio industriale ad una zona di una bellezza discreta, ma dalle poche risorse. 5 stabilimenti e 1500 operai; se volevi un prodotto di qualità lo compravi dalla Saeco, e anche le altre marche facevano costruire qui i loro prodotti per essere sicuri che durassero nel tempo. Non durò però quella stagione, l’industria è volatile se a comandare non sono le idee, non sono le persone, ma è il profitto, precisano qui con una saggezza tutta montanara. La Saeco poi passò di mano in mano dimezzandosi ad ogni passaggio. Ad acquistarla Nel 2009 la Philips, la multinazionale olandese in cerca di brand, di marchi che vendano. Il resto è una storia già vista, quella della multinazionale che asciuga via via la produzione in Italia per trasferirla in uno stabilimento gemello, sempre nell’est Europa, dove il lavoro costa poco. La trama di questo colosso profondamente Made in Italy si è progressivamente sfilacciata, perdendo mercato, capacità di innovazione, fatturato e operai. Ora dei 5 stabilimenti ne rimangono aperti 2. Dei 1500 dipendenti ne sono rimasti 588.

La Philips ne voleva licenziare 243. Uno su due. È iniziata una protesta che ha raccolto le adesioni di tutta la comunità, quella della montagna che vive in bilico su questa economia fragile. A Gaggio Montano, a pochi chilometri da dove è nato ed è sepolto Enzo Biagi, alcuni negozianti hanno boicottato i prodotti Philips, altri hanno chiuso le serrande e sono scesi a valle, davanti alla fabbrica a protestare, tanti altri hanno donato: chi un po’ di spesa, chi una coperta, chi una griglia. Ogni tanto una macchina si affacciava con una torta appena sfornata per i lavoratori in presidio, notte e giorno, fino ai meno dieci gradi delle notti più dure. Davanti allo stabilimento lotta serrata, con i media una campagna intelligente ed efficace, fatta utilizzando gli stessi principi del marketing. Con l’uso ripetuto del marchio Saeco in ogni manifestazione: come quando hanno offerto il caffè su piazza Maggiore a tutti i bolognesi, portando le macchinette da caffè in piazza, mostrandole come ad una fiera o ad una televendita: “sono belle, le facciamo noi”. O cingendo la statua del Nettuno con 243 magliette rosse con il logo, ogni maglietta un posto di lavoro. O come quando hanno bloccato l’ingresso della fabbrica con centinaia di tazzine da caffè poggiate a terra, una distesa imponente, che rendeva plastici i numeri in ballo. In quel modo le lavoratrici e i lavoratori hanno dimostrato a tutti che la Saeco sono loro, non chi ha comprato il marchio, ribaltando il discorso e separando in ogni slogan, in ogni intervista la Saeco dalla Philips. Le telecamere si sono accese su quella periferia, costringendo la Philips a fare comunicati stampa per spiegare. Nella trattativa gli operai non sapevano cosa aspettarsi, il braccio di ferro era impari, la Philips respingeva ogni ipotesi di accordo, dimostrandosi infastidita dalla voce dei sindacati e impermeabile ai tentativi delle istituzioni, verso cui, in alcune fasi è apparsa quasi irridente. Un modo chiaro di fare impresa, a cui in tanti hanno guardato, perché questa crisi farà giurisprudenza, altre multinazionali si muoveranno sugli stessi passi. Ma i dirigenti non avevano fatto i conti con le donne della Saeco. Con la loro capacità di sacrificio e resistenza.

Quando la Philips ha provato a forzare il blocco, loro sono rimaste semplicemente lì, alternandosi giorno e notte distese davanti ai tir pieni di prodotti che dovevano essere venduti e che sono rimasti lì, costando salate penali all’azienda. Quando la Philips ha provato a disunire il fronte, loro si sono serrate ancora di più. Allora non restava che trattare. Laddove non c’era margine, lo si è trovato grazie anche ai tanti soldi messi dal governo. 75mila euro a chi sceglie di andare via subito. 200 gli esodi volontari previsti. Alla fine la Philips otterrà in parte quello che voleva, promettendo in cambio di rilanciare lo stabilimento. Ora si guardano in faccia le donne della Saeco, chiedendosi se alla fine è andata bene o è andata male, si rispondono che è andata e basta. Molte di loro lasceranno la fabbrica, e probabilmente la montagna. Di loro rimarrà il profondo senso civico, che va trasmesso e andrebbe insegnato.


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