Dalton Trumbo, un culto italiano

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I più giovani lo scopriranno solo attraverso il film di Jay Roach , L’ultima parola, la vera storia di Dalton Trumbo, ma per l’Italia il grande sceneggiatore che conquistò ben due Oscar sotto falso nome non è affatto un Carneade. Per molte famiglie di sinistra italiane Trumbo era già un culto molto prima che nel 1960 Kirk Douglas e Otto Preminger sfidassero le liste nere maccartiste imponendo il suo vero nome tra i crediti di Spartacus e di Exodus.

Il Pci di Togliatti, in particolare, aveva fatto un vessillo dei Dieci di Hollywood che nel 1947 davanti alla Commissione per le Attività antiamericane si erano rifiutati di testimoniare appellandosi al Primo Emendamento. Se ne parlava nelle nostre case di qua dall’Atlantico come si parlava dei Rosenberg, altre vittime comuniste della Caccia alle streghe, giustiziati come spie sovietiche.

Comunista lo era davvero, Trumbo, iscritto dal 1943, attivista politico e sindacale, per i crociati dell’American Legion era sinonimo di “traditore”. Scontati dieci mesi di carcere ed espulso dalla Screen Writers Guild, cioè bandito da tutti gli Studios, l’autore prima più pagato e vezzeggiato di Hollywood era diventato per tutto il mondo antifascista un eroe popolare, una icona assoluta per le coscienze dilaniate dalla Guerra Fredda.

E il suo mito seppe resistere agli anni bui dell’esilio in Messico e del lavoro nero, quando i suoi film ci arrivavano firmati sotto pseudonimo o da “fronts”, prestanome. La proscrizione maccartista provocò incidenti imbarazzanti quando l’Oscar premiò il suo lavoro clandestino per Vacanze romane e La più grande corrida: il signor Robert Rich, invitato sul palco nel 1957 da Deborah Kerr , non esisteva.

Ma simbolo era e simbolo restava, probabilmente meno in patria che fuori, anche per quel capitale manifesto antimilitarista che era il suo romanzo del 1939, E Johnny prese il fucile. Fu per rilanciare nel cinema quel suo romanzo, che aveva patito i cambi di rotta di Stalin sull’intervento americano in guerra, che Trumbo passò alla regia, nel 1971, per la prima e l’ultima volta nella sua vita. Ecco perché il film di Jay Roach per chi ha lunga memoria è un ripasso di storia comune, con i filmati originali d’epoca che spuntano a riaccendere vecchie scintille di indignazione e di solidarietà, con Ronald Reagan e Robert Taylor che fanno i delatori e i volti di Bogart , Danny Kaye , Lucille Ball schierati sull’altro fronte. E JFK, il presidente neoeletto, che nel 1960 sfida i picchetti di protesta contro Spartacus per benedire il film scritto dal “comunista”.

È un grande ripasso di ricordi che mette ognuno al suo posto, John Wayne e la potente Edda Hopper tra i grandi accusatori, Edward G. Robinson tra gli ex amici piegati dal ricatto sulla propria carriera. C’è la trascrizione fedele, in finale, di quanto disse Dalton Trumbo alla cerimonia che lo riammetteva nella Screen Writers Guild, accomunando persecutori e perseguitati: “Siamo stati tutti vittime”. E c’è il folklore, leggendario anche quello: la figura di uno scrittore compulsivo annidato nudo nella vasca da bagno, con l’eterna sigaretta e l’eterno bicchiere.

Non è un blockbuster, ma può aspirare alle grandi platee grazie al Trumbo di Bryan Cranston, consacrato, tra i giovani, da una serie di culto comeBreaking Bad. È il più sorprendente, Cranston, tra i contendenti di Brad Pitt nella corsa per l’Oscar. Il ripasso accomuna chi ha vissuto la Hollywood di quegli anni da dentro e chi ha palpitato da lontano per quanti pagavano prezzi altissimi per tenere alta la testa. Fanno bene al cuore, oggi, i ricordi del 98enne Kirk Douglas nella sua lettera aperta a sostegno del film: “Ho avuto amici costretti all’esilio perché nessuno li faceva lavorare, attori che si sono suicidati per la disperazione”. Fu minacciato anche lui.

Eppure… Eppure si rimpiange, guardando Trumbo(questo il titolo originale), ricavato dall’omonima biografia di Bruce Cook (che è in libreria per Rizzoli), il primo film che ruppe il silenzio sugli sceneggiatori fantasma degli anni ’50, Il prestanome (The Front) di Martin Ritt, 1976. Quel grande film di un grande autore troppo poco citato dai cinefili metteva accanto a Woody Allen alcune vittime vere del maccartismo, come Zero Mostel , Hershel Bernardi, lo sceneggiatore Walter Bernstein, e si chiudeva facendo scorrere i nomi della Blacklist, molti dei quali riabilitati non furono mai. Quella lista, completa, la si vorrebbe anche qui, a ricordare tante storie, tanti volti, tanti ribelli di cui nessuno ci parlerà più.

Fonte: “Huffington Post”


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