30 anni dopo, la lezione del maxiprocesso di Palermo

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Di Lorenzo Frigerio

Sono passati trent’anni da quel lunedì 10 febbraio 1986, quando a Palermo aprì le sue porte per la prima volta l’aula bunker costruita a fianco del carcere dell’Ucciardone: ribattezzata nelle cronache dell’epoca l’astronave verde, in virtù del disegno architettonico e dei colori scelti per decorare gli interni, la struttura fu realizzata a tempi di record in soli sei mesi per ospitare l’atto finale della più grande offensiva dello Stato contro la mafia.

“Silenzio, entra la corte” fu il titolo perentorio del Giornale di Sicilia che quella mattina accolse l’avvio dei lavori del cosiddetto “processone”, il primo maxi processo alle cosche mafiose operanti in Sicilia, il cui esito segnerà la storia della lotta a Cosa nostra e cambierà il corso delle stesse vicende italiane.

Ben 475 furono le persone rinviate a giudizio, tra essi i boss più importanti dell’organizzazione mafiosa, da Luciano Liggio a Michele Greco, da Leoluca Bagarella a Pippo Calò e Nitto Santapaola, da Salvatore Riina a Bernardo Provenzano, latitanti ancora all’epoca. I capi di imputazione erano 438 e servivano a delineare i traffici e i delitti che innervavano la storia moderna della mafia siciliana, così come si era andata organizzandosi dopo la repressione seguita alla strage di Ciaculli (30 giugno 1963), fino allo scontro allora in corso di svolgimento tra le famiglie palermitane e gli emergenti corleonesi, impegnati in una rapida scalata ai posti di comando dell’organizzazione.

Per la prima volta fu contestato il reato di associazione di tipo mafioso: l’art. 416 bis, infatti, era stato introdotto nel codice penale solo il 13 settembre del 1982 con la legge Rognoni-La Torre e fu utilizzato per la prima volta dal pool di giudici dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, guidato prima dal consigliere Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto. Sotto la loro leadership, magistrati come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta e Peppino Di Lello, solo per citare il nucleo iniziale del pool, ricostruirono la storia criminale di un’organizzazione che, fino a quel momento, era riuscita ad eludere ogni tentativo di repressione da parte dello Stato. I processi di Bari e Catanzaro, infatti, sul finire degli anni Sessanta, si erano chiusi con una raffica di assoluzioni per insufficienze di prove per gli uomini d’onore, certificando l’impossibilità per lo Stato di colpire un’organizzazione, la mafia siciliana, con gli strumenti allora vigenti.

Nacque in quel contesto, segnato dalle polemiche e dallo sconforto, il percorso che portò uomini politici, come Pio La Torre e magistrati, come Cesare Terranova e Chinnici a condividere idee e proposte in tema di lotta alla mafia che poi furono trasfuse nel testo di legge, che venne approvato solo dopo l’uccisione del prefetto dalla Chiesa.

Tuttavia il nuovo complesso normativo, compreso il fondamentale art. 416 bis c.p., con la sua individuazione del metodo mafioso, non sarebbe stato in grado di produrre risultati significativi, senza l’apporto decisivo di un gruppo di uomini che decisero di adottare una modalità di lavoro e di condivisione che si dimostrò rivoluzionario per l’epoca, perché capace di superare la frammentarietà dell’azione giudiziaria nel contrasto alle cosche.

Adottando una modalità già messa in campo nella lotta al terrorismo, il capo dell’ufficio mantenne la titolarità del principale fascicolo di indagini, delegando contemporaneamente i colleghi al disbrigo delle attività investigative e assicurando una sintesi efficace nella direzione delle inchiesta prima e della formulazione dei capi d’imputazione poi. Quel manipolo agguerrito di magistrati seppe restituire credibilità allo Stato, uscito sconfitto dalle prove di Catanzaro e Bari, perché  costruì un’azione di contrasto lungo quattro direttrici fondamentali:

  1. la forte specializzazione in tema di criminalità organizzata;
  2. la continua circolarità delle informazioni tra tutti i magistrati, per far crescere la socializzazione di contenuti e proposte ed eliminare la possibilità che, colpito uno di loro, le indagini si fermassero;
  3. la rinuncia alle individualità – novità assoluta per una magistratura che della monocraticità del giudice istruttore aveva fatto un totem – per esaltare piuttosto la collegialità dell’iniziativa di repressione;
  4. la discrezione come stile delle comunicazioni all’esterno, per evitare che fughe di notizie potessero compromettere la paziente opera di indagine delle forze di polizia.

Adottare queste modalità per loro non fu facile, ma questa unità di intenti e la loro traduzione concreta in azioni prima e nella monumentale ordinanza di rinvio a giudizio – denominata inizialmente «Abbate Giovanni+706» e poi diventata «Abbate Giovanni+474» – furono la base della vittoria dello Stato contro la mafia.

I giudici del pool antimafia dell’ufficio istruzione riuscirono non solo a dimostrare l’esistenza di Cosa Nostra, portando alla sbarra boss e manovalanza mafiosa, ma anche farli condannare pesantemente: il 16 dicembre 1987 il primo grado si chiuse con 19 ergastoli, 2665 anni di carcere, 114 assoluzioni. Poi fu la volta dell’appello che sembrò mettere in forse il cosiddetto “teorema Buscetta”, vale a dire la struttura gerarchica e l’unitarietà di Cosa Nostra, come raccontata dai primi collaboratori di giustizia.

A nulla valsero i distinguo e i tentativi di smontare il lavoro del pool e la responsabilità della cupola mafiosa fu sanzionata dalla sentenza finale della Corte di Cassazione che, il 30 gennaio del 1992, stabilì la fondatezza dell’impianto accusatorio dei giudici palermitani, confermando la gran parte delle condanne fin lì inflitte, molte delle quali all’ergastolo e mettendo fine, soprattutto, al mito della impunibilità della mafia stessa.

Un risultato impensabile fino a quel momento storico: la migliore prova sul campo che lo strumento giudiziario, se messo in condizione di funzionare al meglio, poteva fornire risposte adeguate al fenomeno criminale, superando anche i pesanti tentativi di intimidazione nei confronti della stessa magistratura. Non dimentichiamo, infatti, che i killer mafiosi prima uccisero il giudice Antonino Saetta (25 settembre 1988), indicato come presidente per l’appello del maxi processo, e poi Antonino Scopelliti (9 agosto 1991), chiamato a rappresentare la pubblica accusa presso la Corte di Cassazione.

Quel 10 febbraio 1986 prese avvio la storia moderna della lotta alla mafia. Di quel giorno dobbiamo ricordare le fatiche e le speranze che lo precedettero, soprattutto non dobbiamo dimenticare il sangue versato da tanti servitori dello Stato per dimostrare che la legge è davvero uguale per tutti, boss mafiosi compresi.

Dall’azione di quel primo pool di magistrati, prese avvio l’intuizione che porterà nel 1991 alla creazione della Procura nazionale antimafia e all’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia che, nei decenni successivi, infliggeranno duri colpi alle mafie nelle diverse regioni del Paese.

Crediamo però che la lezione più importante che ci viene dal maxi processo sia che lo Stato funziona nella sua opera di contrasto al crimine organizzato, se gli uomini chiamati a incarnare le istituzioni si mettono in gioco, anche oltre le proprie competenze, i propri limiti, sentendo fino in fondo il gravoso ma indispensabile dovere di rappresentare la domanda di verità e di giustizia.

In fondo, quel 10 febbraio del 1986 ci insegna quanto le leggi e le strutture siano importanti, ma quanto gli uomini siano ancora più importanti.

Da liberainformazione


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