La mano pubblica e quella che non si vede

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In un documentato articolo di Alessandro Longo su La Repubblica di ieri, si annuncia con una certa enfasi la costruzione di una rete pubblica in fibra ottica dedicata ai 7.300 comuni considerati a “fallimento di mercato”. Il soggetto attuatore dovrebbe essere la società del ministero dello sviluppo Infratel Italia. Ottimo direi…diceva una vecchia pubblicità. L’esecutivo si è convinto finalmente di intraprendere l’unica via credibile per coprire il territorio con connessioni adeguate alla società dell’informazione, vale a dire con il ruolo diretto della sfera pubblica? Del resto, come ci ricorda nei suoi scritti Mariana Mazzucato, l’evoluzione delle tecniche è percorribile sul serio solo se la scintilla viene dalla “stato innovatore”.

Da solo, il mondo privato si ritaglia le zone di sicuro profitto, lasciando al loro destino quelle meno abbienti. Sembra, insomma, essersi determinato a fine dicembre un cambio di rotta impresso dallo specifico comitato che fa riferimento a palazzo Chigi. Qualche scetticismo è d’obbligo su di una materia tuttora sfuggente, in assenza di una trasparente opzione strategica. Siamo alla quarta “ondata”, dopo l’ipotesi della Cassa depositi e prestiti, il consorzio degli operatori con o senza Telecom, l’entrata in scena di Enel. A meno che sia proprio quest’ultima a stare sullo sfondo dell’ultima virata. Gli stop and go si susseguono da tempo. Senza parlare delle contraddizioni degli anni passati, a partire dalla “stecca” iniziale di una privatizzazione frettolosa, che non mantenne nella mano pubblica il bene comune della rete.

Ecco il punto. La rete è un sistema unitario. Come può coesistere un pezzo istituzionale con un mosaico di privati in concorrenza? E’ doveroso rispondere a simile interrogativo. Chi decide, chi controlla, visto che le aree sfortunate spesso sconfinano nei quadranti felici? Ciò accade sicuramente nelle grandi aggregazioni urbane ed è bene tenerne conto. Come? Per non buttare forse l’ultima occasione per risalire dal fondo classifica in Europa (e nel mondo, quanto ad esempio a velocità), meglio sarebbe ridare coerenza all’intero edificio. La rete tutta ha da essere pubblica, lasciando alla competizione di mercato l’offerta di servizi di notevole ritorno economico. Senza, ovviamente, espropriare nessuno. La governance deve comprendere i diversi operatori interessati, laddove per pubblico non va intesa la mera formula societaria, bensì la visione generale. Va, poi, aggiunto che la banda larga e ultralarga è solo una tappa verso una moderna democrazia della comunicazione. Se è vero che il nuovo network riguarderà 19 milioni di persone, si pone il problema di una seria alfabetizzazione, da inserire una volta per tutte nei cicli formativi, trattandosi dei linguaggi indispensabili per esercitare i diritti di cittadinanza. E poi l’occupazione. Siamo di fronte ad un’opportunità straordinaria per offrire lavoro qualificato a migliaia di persone, giovani o meno. Altrimenti viene a mancare la motivazione forte tra i cittadini, che è sempre la variabile decisiva nei passaggi cruciali. Insomma, non è una pratica da evadere in nome della rivoluzione digitale. E’ un vero cambiamento di modello, che chiede il superamento dell’antica dittatura televisiva, suscitando una domanda avanzata. Un immaginario post-generalista.

Chissà se il governo vorrà chiarire propositi, intenzioni, alleanze produttive e misure di sostegno del consumo, specie nelle regioni del sud dove già l’investimento era previsto. Coraggio. La rete non è un pranzo di gala.


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