Mali, l’inferno del Radisson.
I terroristi volevano un massacro di infedeli

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L’inferno al Radisson Blu in Mali ricorda terribilmente l’assalto in un campus universitario in Kenia, lo scorso aprile. Furono trucidati 147 ragazzi. Si salvarono solo quelli che, recitando il Corano come richiesto dai terroristi somali di Al Shebab, avevano dimostrato di essere dei musulmani. Le vittime morirono perché ‘cristiani’ e ‘studenti’ in cerca di un futuro migliore.
Anche ieri gli jihadisti hanno rastrellato, nei vari piani dell’albergo internazionale di Bamako,  quanti più ospiti occidentali riuscivano a trovare, lasciando andare quelli che conoscevano i versi fondamentali del testo sacro dell’Islam. Orrore nell’orrore. Il bilancio finale poteva essere ben più grave dei venti morti per mano degli assalitori se il blitz delle forze di sicurezza maliane, alle quali si sono aggiunte quelle ‘speciali’ inviate da Parigi. Il commando voleva una strage di tutti gli ‘infedeli’.

Questo attentato, come quelli di Boko Haram in Nigeria, pongono sotto i riflettori realtà troppo spesso ignorate. Da mesi in Mali è in atto un’escalation di violenza in Mali che neanche la presenza di truppe francesi, supportate da Nazioni Unite e Unione Europea, è riuscita a frenare. Ma solo in queste ore l’espansione del raggio di azione dei qaedisti è diventato tema di attualità.

Da tempo è in atto un dibattito sull’opportunità o meno dell’operazione militare nel Paese africano voluta fortemente dall’Eliseo.
Proprio la presenza dei militari d’Oltralpe in una regione complessa come quella del Sahel, oltre all’intervento in Siria, sarebbe uno dei motivi a monte dell’accanimento dell’estremismo islamico nei confronti della Francia.
Ma cosa si intende quando si parla di Sahel? Qualche cenno geopolitico è d’obbligo. Vasta area semi arida che confina con l’estremità occidentale del Sahara e che tocca gli stati del Niger, della Mauritania, del Mali, del Ciad, del Sud del Senegal e del Burkina Faso, è ad alto rischio di desertificazione.
Gli abitanti del Sahel si trovano quotidianamente a lottare con fame e sete, oltre che con l’avanzata del deserto che ne minaccia la sopravvivenza.
Negli ultimi anni si è tentato di frenare questo fenomeno con la creazione di una zona verde, ma si tratta di un’operazione molto dispendiosa che richiede una moltitudine di capitali che momentaneamente non sono
disponibili.
Per quanto concerne l’aspetto politico, da quando dopo il colpo di stato nel 2012 si è aperta una nuova crisi interna in Mali, un tempo considerato un modello di democrazia in Africa, la ribellione dei Tuareg nel nord ha aperto di fatto la strada ai ribelli separatisti e islamisti. E il voto di due anni fa, le prime elezioni presidenziali dopo 18 mesi di crisi politica e guerra, non è bastato a riportare stabilità nel Paese.
Dal 2013 è attiva una missione militare internazionale di sostegno al Mali sotto l’egida della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) e autorizzata dalla risoluzione 2085 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, guidata fino allo scorso anno da Romano Prodi.
Nonostante il dispiegamento del contingente di peacekeeping, l’insicurezza è rimasta inalterata.
L’avanzata di al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) è proseguita pressoché indisturbata.
Il gruppo, inserito nella lista delle organizzazioni dedite al terrorismo, ha una presenza significativa nel Sahel, in particolare proprio in Mali, dove ha gettato le basi per la creazione di una roccaforte inespugnabile.
Nelle ultime settimane l’instabilità della regione si è ulteriormente aggravata e nel paese si sono rifugiati altri gruppi ribelli che ne hanno fatto la propria base operativa.
Sul piano umanitario, funzionari di organizzazioni non governative e di agenzie Onu, che avevano  manifestato grande preoccupazione per le conseguenze che un’operazione militare, parlano di una crisi
alimentare e nutrizionale che sta stremando le popolazioni locali.
Più di 18 milioni di persone soffrono la fame nel Sahel, tra cui più di 1 milione di bambini.
Mali, Mauritania e Ciad i paesi più colpiti. E le operazioni militari, seppure giustificate dalla preoccupazione che l’Africa Sahariana fortemente destabilizzata dopo la guerra in Libia diventasse rifugio per al Qaeda, hanno peggiorato la situazione. Senza per altro ottenere i risultati auspicati, come testimonia l’attentato di oggi.
Per  mesi nella regione il flusso di armi, molte utilizzate nei combattenti in Libia, è andato crescendo. Analisti ed esperti nella lotta al terrorismo avevano evidenziato come i gruppi affiliati ad Al Qaeda, arricchiti da riscatti pagati per ostaggi occidentali, avessero enormemente accresciuto la propria forza. Complice di ciò, anche la spaccatura tra i vicini del Maghreb arabo, Algeria e Marocco.
Entrambi i paesi potrebbero garantire intelligence e forze militari in grado di controllare il proliferare delle realtà terroristiche. Ma la cronica rivalità che li contrappone ha creato uno stallo che impedisce di mettere in campo la cooperazione per la sicurezza comune in tutta la regione sahariana, che potrebbe davvero fare la differenza.


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