L’etichettatura Ue per i prodotti dei territori occupati: questione tecnica o politica?

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Sebbene la posizione europea sia, dal vertice di Venezia del 1980, quella di sostenere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e la soluzione dei due stati, riconoscendo l’illegalità delle colonie israeliane nei territori occupati, gli accordi di scambio, i partenariati commerciali e varie forme di cooperazione con Israele raramente hanno fatto pensare che l’Unione Europea andasse nella direzione di adottare misure concrete di fronte alle violazioni riconosciute come tali dal diritto internazionale. Almeno fino a metà degli anni 2000, con l’istituzione del criterio di differenziazione in base a cui, nel quadro degli scambi commerciali, i prodotti provenienti dalle colonie non sono più considerati come prodotti israeliani e quindi esulano dall’applicazione delle tariffe preferenziali previste dall’accordo di associazione tra l’Unione Europea e Israele. Nel 2013 sono state elaborate le linee guida per escludere i Territori Occupati dalla portata di tutti gli accordi commerciali stabiliti con Israele, ma si trattava di raccomandazioni non vincolanti.

Nell’aprile del 2015 dai ministri degli esteri di 16 paesi, tra cui l’Italia, è venuta la proposta di introdurre l’etichettatura di origine sui prodotti (cosmetici e alimentari) provenienti dai Territori Occupati e ieri, 11 Novembre, la Commissione ha approvato la nota interpretativa relativa alle linee guida del 2013; diventa quindi obbligatorio indicare se un prodotto viene dagli insediamenti (cosa che accadeva già in paesi come la Danimarca o il Belgio rispettivamente dal 2012 e 2014), ovvero non sarà più possibile indicare “Israele” come provenienza per i prodotti delle colonie. E questa è una misura coerente dal punto di vista del diritto internazionale, per cui le colonie israeliane sono illegali.

Per quanto riguarda le reazioni, dal ministero degli esteri israeliano viene prontamente comunicato che Israele cancella la sua partecipazione ai prossimi incontri previsti con l’Unione Europea sul Medio Oriente e sui diritti umani. Per quanto riguarda i commenti, i toni sono quelli consueti per il primo ministro Benjamin Netanyahu: l’Europa “dovrebbe vergognarsi” per una “decisione ipocrita” che usa due pesi e due misure punendo solo Israele e non le altre 200 zone nel mondo in cui sono aperti conflitti territoriali. Per il ministro dell’energia Yuval Steinitz, si tratta di “misure discriminatorie” che ricordano i tempi in cui in Europa i prodotti israeliani erano contrassegnati come tali (riferimento che già aveva fatto Netanyahu a Settembre, quando in visita in Gran Bretagna si era espresso sullo stesso tema). Mentre il portavoce del ministero degli affari esteri fa sapere che “Israele condanna la decisione dell’Unione Europea”, sottolineando che non farà fare nessun passo avanti al processo di pace tra Israele e Palestina. Misura che per il ministro della difesa Yaalon è una “ricompensa al terrorismo”; un “atto anti Israele e antiebraico” per la ministra della giustizia Shaked. Insomma un governo israeliano compatto nel far sapere che la decisione europea avrà delle conseguenze nelle relazioni tra lo stato ebraico e l’UE e che a pagarne il prezzo saranno i palestinesi che lavorano per le imprese colpite dalla misura.

Se per Israele quindi si tratta di una decisione politica, per l’Unione Europea la questione è tecnica. Non solo perché l’accordo di associazione con Israele esclude i Territori Occupati, ma anche perché l’etichettatura di origine è prevista dalle norme commerciali vigenti nell’Unione, per la tutela e informazione dei consumatori. Il vice presidente della Commissione, Valdis Dombrovsky, ha peraltro ribadito che i prodotti di origine israeliana, facendo riferimento alle “frontiere internazionalmente riconosciute”, continueranno a beneficiare del trattamento tariffario preferenziale previsto dall’accordo di associazione.

Se quindi pochi giorni fa, quando già si ventilava l’approvazione della nota interpretativa dell’UE, la vice ministra degli affari esteri israeliana Tzipi Hotovely dichiarava “l’etichettatura, diciamolo chiaramente, è un puro e semplice boicottaggio a Israele”, qualcuno potrebbe rispondere, stringando, che l’etichettatura è dire le cose chiaramente.

Per un attimo allora ripenso a Fidaa, che conosco poche settimane fa a un incontro internazionale sul cibo, sulla produzione alimentare e su come nutrire il pianeta. I temi dell’incontro vanno dall’agricoltura alla microfinanza etica, dalle normative vigenti in materia di sicurezza alimentare al land grabbing, dalle lotte dei piccoli produttori delle comunità indigene contro Monsantos alla tutela della biodiversità, dal ruolo e l’impatto delle produzioni marginali all’organizzazione di una rete di iniziative contro gli sprechi o progetti come quello dei 10.000 orti in Africa.

“Questi temi sono imprescindibili, certo. Eppure a noi palestinesi mancano i fondamentali: a noi la terra viene tolta, a volte espropriata, a volte acquistata a prezzi ridicoli. Quando ti tolgono – o non ti è mai arrivata – l’acqua o l’elettricità, è difficile tenerla, la terra. Io e altri come me produciamo in modo sostenibile, cerchiamo di privilegiare metodi organici e biologici, certo. Ma le famiglie palestinesi generalmente non sono ricche e sono molto numerose e i prodotti israeliani con fertilizzanti chimici e ogm sono i meno costosi in assoluto: è per questo che le famiglie palestinesi comprano i prodotti israeliani, sono praticamente costrette, spesso non hanno scelta”. Questo mi racconta Fidaa, laureata in agraria e residente a Ramallah, dove si occupa di ristorazione oltre a tenere un blog di cucina e a lavorare come traduttrice. Fidaa in effetti è un’attivista a partire dal cibo e tra qualche settimana pubblicherà un libro di ricette palestinesi dove ai vari ingredienti abbinerà la storia degli alimenti e delle terre che li producono: la storia di un’occupazione attraverso il cibo, una forma di resistenza attraverso la narrazione e la difesa della tradizione culinaria. Mentre l’ascoltavo ho pensato “il cibo è storia”; ma “il cibo è politica”, mi ha detto Fidaa.


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