Intercettazioni, Sandro Ruotolo: “Sono 20 anni che provano a mettere il bavaglio

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«’O vogl’ squartat’ viv’»: così Michele Zagaria, boss dei casalesi, minacciava il giornalista televisivo Sandro Ruotolo, che nel maggio 2015 finiva sotto scorta. Ruotolo aveva raccontato e denunciato il mondo marcio della terra dei fuochi intervistando il pentito Carmine Schiavone, attirando così su di sé l’ira del capo clan casalese e la minaccia di morte. Dalla vita sotto scorta alla legge sulla delega delle intercettazioni, passando per il nodo della querela temeraria: Sandro Ruotolo racconta ad Articolo 21 la sua storia e torna a puntare il dito contro lo stato di salute precario della libertà di informazione in Italia.

Vive sotto scorta da quando Michele Zagaria, boss dei casalesi, l’ha minacciata, in seguito a quella importantissima intervista al pentito Carmine Schiavone che ha continuato a portare a galla il marcio della terra dei fuochi. Come ha vissuto quella minaccia e come vive questa vita “blindata”?
Non me l’aspettavo. Non perché uno sottovaluti o sia incosciente, ma perché il ragionamento è più semplice: tu non stai nella testa loro, non sai loro come reagiscono. Per cui dopo quarant’anni di inchieste – io sono in televisione dal 1980, sono passati tanti anni e mi sono sempre occupato di queste questioni, delle guerre di mafia degli anni Ottanta, ‘ndrangheta, sequestri di persona, eccetera – ci sarebbero state altre occasioni in cui avrei potuto rischiare e invece non ho rischiato, perché in quelle volte non ho ricevuto minacce esplicite. Già nel 2009 sono stato per un anno a Roma con un sistema di protezione, perché mi era arrivata una lettera di minaccia molto documentata: mi avevano seguito, perché nella lettera c’erano dei riferimenti precisi a dove vivevo, all’indirizzo, ai miei cani.. Quindi non è la prima volta. Sono stato in zone di guerra, ho intervistato tantissime volte collaboratori di giustizia e mafiosi, il mio nome è finito tante volte in lettere di minaccia, però non me lo aspettavo. Non ci volevo credere, ma in realtà nessuno se lo aspetta, proprio perché non sei nelle loro teste. Puoi anche capire il loro linguaggio, le loro minacce, i loro comportamenti, ma questo non significa entrare nel meccanismo loro. Questa cosa invece ha colpito Zagaria, che è il capo del clan dei casalesi arrestato più di recente. Mentre Iovine – l’altro grande latitante – si è pentito, Zagaria non l’ha fatto. Come si vive in questa condizione? Perdi la tua libertà, puoi fare tutto, sì, ma devi pianificare ogni dettaglio, devi organizzare tutto. Se ad esempio sono a casa e decido di andare al cinema, non posso farlo, perché è chiaro che scatti anche il meccanismo di “autocensura”, in un certo senso. Nei weekend, quando non hai impegni pubblici, sei a casa e, appurato che non hai programmi per la giornata, mandi via la scorta. Se ti manca, ad esempio, una medicina non puoi uscire tu e mandi tua moglie o tuo figlio. Pianificando tutto, però, si riesce a fare qualsiasi cosa. È chiaro per me che ho sessant’anni è meno faticoso rispetto ai giovani colleghi, come Paolo Borrometi, o Lirio Abbate, che è più giovane di me, o Federica Angeli, che pure ha famiglia.

Come lei, sono tanti i giornalisti, soprattutto i cronisti di provincia che patiscono quotidianamente una condizione di abbandono alla mercé di minacce e querele.
La cosa che mi ha colpito molto e sulla quale c’è una sottovalutazione è che in questi ultimi anni – soprattutto in questi ultimissimi anni – c’è un attacco delle mafie all’informazione. I dati di Ossigeno rivelano il numero elevatissimo di giornalisti minacciati, in cui si inseriscono anche le 97 querele dei cronisti di Mafia Capitale che hanno pubblicato le intercettazioni e anche questa è una minaccia. Quello che colgo è che questo attacco si avverte soprattutto nelle province, con macchine incendiate e lettere minatorie, nei confronti di quei colleghi , freelance e precari che vivono e lavorano in piccole realtà. Paolo Borrometi è stato guida. Io sono stato a settembre nel Gargano dove c’è un giovane collega del Fatto del Gargano (un piccolo quotidiano online) a cui per la seconda volta avevano incendiato la macchina. A parte la reazione che non c’è così drammaticamente forte da parte dei giornalisti, io dico sempre che l’articolo 21 è composto da due parti: da una parte ci siamo noi che abbiamo il dovere di raccontare, dall’altra, però, ci sono i cittadini che hanno il diritto di essere informati. È importante da questo punto di vista che la gente si schieri. È chiaro che anche i giornalisti stessi debbano schierarsi dalla parte dell’articolo 21. Oggi questo attacco è sottovalutato dalla politica e dalla società civile. Certo non manca la solidarietà, perché paradossalmente in alcuni segmenti della società civile questo attacco è percepito. Noi siamo una categoria amata e odiata: amata quando usciamo fuori dal coro, quando non sottostiamo al potere politico, quando facciamo inchieste e raccontiamo i fatti; siamo odiati, invece, in relazione a quella malattia tutta italiana del giornalista che è sempre subalterno al potere, sia esso un governo di centrodestra, di centro o di centrosinistra. Io dico una cosa sulla quale, a mio avviso, bisogna portare avanti una battaglia: come è stato messo nel codice penale il reato ambientale, cioè l’ecoreato – e questa è una vittoria italiana, perché siamo l’unico Paese in Europa che presenta l’aggravante del reato ambientale nel codice penale – così per le eventuali associazioni mafiose e criminali che attaccano il giornalista nelle sue funzioni deve esserci un’aggravante. Questo è il punto su cui tutti dovrebbero dire la loro, su cui dovrebbe schierarsi la politica, il governo e l’opposizione. Non possiamo limitarci ad esprimere solidarietà quando accadono i fatti e poi continuare a fare come prima. No, dati e realtà impongono alla politica dei fatti concreti: serve la solidarietà, non nascondo che quando i consigli di fabbrica, le realtà operaie e i cittadini hanno espresso solidarietà nei miei confronti, è stato qualcosa di emozionante e commovente, ed è chiaro che fa piacere anche sentire il presidente del Consiglio o delle Camere. Al Presidente del Consiglio e a quelli delle Camere, però, dico che bisogna immediatamente passare dalle parole ai fatti: inseriamo un’aggravante. C’è un reato specifico, che è l’attacco ad un articolo della Costituzione, l’articolo 21, che va sanzionato. Minacciare, intimidire un giornalista non è la stessa cosa che minacciare o intimidire un amministratore locale, un poliziotto o un magistrato. È più grave. Questo non vuol dire che anche per gli amministratori locali non si debba pensare ad un’aggravante, ad una specifica. L’attacco all’informazione, però, misura la qualità della democrazia. È questo il punto centrale: è qualcosa in più rispetto a reati pure gravissimi, alle gravissime minacce che possono ricevere poliziotti, investigatori, inquirenti o politici. Però la differenza tra una democrazia e un regime si misura nella qualità della libertà d’informazione.

Oggi l’informazione italiana è sicuramente sotto attacco: dalla piaga del precariato, che è una una malattia interna al sistema giornalistico, alla questione delicata della querela temeraria.

A proposito di precariato e querele temerarie, non dovrebbe essere solo il sindacato dei giornalisti a tutelare, ma dovrebbe esserci una tutela anche a livello istituzionale quando l’atto è palesemente intimidatorio. È chiaro che c’è una querela perché il giornalista dice di più di quanto dovrebbe dire e lì subentra la magistratura ordinaria che decide, ma nella fattispecie delle querele temerarie, anche le istituzioni dovrebbero garantire il giovane precario non tutelato dal suo giornale di riferimento. Perché è palesemente una violazione della libertà di informazione minacciare quando non c’è la validità dell’azione di querela.

Oltre a precariato e a querele temerarie, oggi l’informazione italiana è fortemente minacciata anche dalla legge della delega delle intercettazioni che affossa il lavoro di cane da guardia del giornalismo sulla politica. Quanto è pericolosa questa legge?
È una battaglia epocale. Sono ormai venti anni che provano a mettere il bavaglio. Perché – ripeto – c’è questa malattia tutta italiana di regole e regolette per controllare l’informazione. Noi abbiamo il codice penale che tutela l’offeso e il “diffamato”, abbiamo il codice deontologico nostro. L’esempio lampante è l’azione della Camera penale di Roma contro i 97, tra giornalisti e direttori di giornale, che hanno dato notizia di Mafia Capitale. Questo è palesemente un attentato alla libertà di informazione. Si trattava, infatti, di atti pubblici: noi cronisti abbiamo ricevuti quegli atti istituzionalmente, perché le nostre fonti erano tutte istituzionali. Divertente questo elemento! Sono sempre o avvocati o investigatori o magistrati a passare le carte ai giornalisti, ma solo quando queste sono pubbliche, quando cioè ne vengono a conoscenza le parti. C’è un diritto-dovere dell’informazione di renderle pubbliche. È chiaro che ci sono delle intercettazioni che non ha senso pubblicare. A proposito di queste si può decidere di utilizzare un filtro e mettere le parti a decidere. Però quando arriva l’informazione al giornalista, è dovere del giornalista pubblicarla. È la garanzia dell’informazione. Ora c’è tutta la polemica sul Vaticano, se il giornalista è a favore o contrario a Papa Francesco. Il giornalista queste questioni non se le deve proprio porre.


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