Francia-Mali. Non è questione di “lotta di civiltà”, è normale strategia militare

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Vorrei tentare una strada diversa per capire la ragione che vede Parigi colpita ripetutamente dagli uomini del cosiddetto califfato negli ultimi anni. Partiamo da una dato che sembra marginale: a colpire sono – appunto – gli uomini vicini al  cosiddetto Califfato, non sono integralisti islamici di altra appartenenza.  La differenza è sostanziale e per capirla torniamo indietro di tre anni, al 2012 e andiamo in Africa.

Nell’aprile di quell’anno, in Mali, si scatenò la guerra.  Nel Nord le milizie islamiche si allearono ai tuareg – da sempre in lotta con il governo centrale in nome della propria indipendenza – e cominciarono una avanzata che sembrò inarrestabile.  I Tuareg si autoproclamarono indipendenti. Le milizie travolsero l’esercito maliano e proseguirono la loro azione, con l’obiettivo dichiarato di saldare un “largo fronte africano” nel sub Sahara e creare un califfato che tagliasse in due il Continente. Di fatto era un anticipo di quanto sarebbe accaduto poco dopo in Siria e Iraq. Arrivarono ad un passo dall’obiettivo. Ad impedire la saldatura fu proprio la Francia, che nel gennaio del 2013 decise di intervenire militarmente.

I francesi arrivarono e ricacciarono gli islamici indietro, sloggiandoli dai territori conquistati.  All’azione militare, fecero seguire quella politica, lanciando l’anno dopo l’operazione “Barkhane”:  in pratica, la pace in Mali è garantita da un contingente militare di 3mila militari francesi, affiancati da qualche migliaio di soldati di Burkina Faso, Ciad, Niger, Mauritania e, ovviamente, Mali.  Il significato è chiaro. La Francia non solo ha battuto militarmente chi voleva realizzare in Africa il Califfato, ma lo ha isolato politicamente, chiedendo e ottenendo dai Paesi africani della regione un impegno concreto e duraturo.

Gli attacchi alla Francia possano essere letti anche alla luce di questi fatti. Non è questione di “lotta di civiltà”, è normale strategia militare. Il cosiddetto califfato attacca,  per vendicarsi e per indebolirlo almeno sul piano politico – psicologico, il Paese che sino ad oggi più lo ha contrastato, negandogli un obiettivo quasi raggiunto e intervenendo poi anche altrove, ad esempio in Siria.

Ovvio: tutto questo non cambia nulla dal punto di vista dell’emozione, del dolore. Non modifica di una virgola l’orrore che proviamo ogni volta che immaginiamo la morte di decine di innocenti.  Ma l’azione di Bamako di venerdì scorso,  subito dopo quella di Parigi, ci indica una direzione: lo scontro è sul piano militare. Hollande ha ragione quando dice “la Francia è un Paese in guerra”.  Il guaio, per tutti, è che non sarà una guerra breve.


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