Avrebbe detto “cose contro Dio”. Poeta palestinese rischia la pena di morte

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“Io continuo a inseguire la luce ma non è desiderio di vedere… Le tenebre rimangono spaventose anche se ad esse ci si abitua”. Per “aver dubitato dell’esistenza di Dio” il poeta Ashraf Fayadh martedì 17 novembre è stato condannato da un tribunale dell’Arabia Saudita alla pena di morte.
Il reato di “apostasia” per cui Fayadh -nato in Palestina ma cresciuto in Arabia Saudita- è stato recluso nel 2013 a Abha secondo i giudici sauditi abita in una discussione in un caffè, durante la quale il poeta avrebbe detto “cose contro Dio”, e tra i versi delle sue innocenti poesie pubblicate nel 2008 e sporcate così con l’ombra di morte del giudizio capitale deciso seguendo la legge islamica della Sharia, applicata nel paese in base alla rigida interpretazione wahhabita.
Ancora una volta la luce unica di un libero pensatore è consumata dal tempo d’orrore in cui alcuni paesi uccidono la parola.
Nemici imperdonabili della memoria, della giustizia e della vita legittimano la morte vi si convertono e la rendono mezzo supremo con cui punire in nome di Dio.
La pena capitale resta una scelta vile e irreparabile, consacra il male contro qualunque essere umano venga applicata -in Arabia Saudita almeno 150 esseri umani sono stati giustiziati nel 2015- e quando scortica via l’anima di un poeta dal mondo imprime un inesorabile dolore.

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