#nohatespeech Perché fare da cassa di risonanza ad un linguaggio disumano?

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Chi avrebbe immaginato che il tema “censura” sarebbe tornato così attuale nel nostro paese e avrebbe suscitato un dibattito tanto acceso. Se in passato non sono mancate polemiche sulla scelta di non divulgare notizie che avrebbero nuociuto a questo o a quel politico, ora ci troviamo di fronte a qualcosa di anche più complesso: rivedere e discutere su ciò che significa censurare e soprattutto quale deve essere il ruolo del giornalista in questo processo.

Informare a 360 gradi è il compito principe di chi fa il nostro lavoro . Il problema si pone quando ci troviamo di fronte al dilemma se divulgare o meno certe notizie e certe immagini. Si tratta spesso di opportunità e scegliere ogni volta non è facile. Questo interrogativo ce lo siamo posto su molti argomenti e già ,anche poco tempo fa, sui video dell’Isis che riguardavano non solo le decapitazioni, ma anche i filmati in cui mostravano addestramenti e spronavano al combattimento per lo Stato Islamico. Dopo un lungo periodo di trasmissione di tali video,  in molte testate tv, la decisione di non trasmetterli più. Si è trattato di censura? Tecnicamente qualcuno potrebbe pensare di si, ma in quel caso, orrore a parte, era necessario evitare di farsi strumento di propaganda per i terroristi.

Ora ci ritroviamo più o meno nella stessa situazione. Nohatespeech non vuole più frasi , servizi giornalistici o trasmissioni che incitino all’odio contro i rifugiati. Perché fare da cassa di risonanza ad un linguaggio disumano e denigratorio?  Perché pubblicizzare ciò che i social networks diffondono senza controllo ? E ancora, andiamo oltre: sarebbe giusto creare un blocco anche sui social con alcune parole chiave per impedire che in rete vadano frasi che alimentano razzismo e violenza?

E’ giusto, come giornalisti  porsi dei limiti anche solo nel riportare questo linguaggio razzista e violento? Io credo che vi siano due considerazioni da tenere presente. La prima è che dare voce a tutto quest’odio senza una riflessione critica  è indubbiamente propaganda. Usare le piazze, ad esempio, durante una trasmissione, lasciando andare a ruota libera un gruppo di facinorosi non può che esserlo. Creare in questo modo l’illusione di un sentire comune  e non fornire un’altra possibile prospettiva, cos altro è?

La seconda considerazione è che evitare la diffusione di immagini, frasi e comportamenti lesivi della dignità dell’essere umano non può essere considerata censura. Non dare spazio a ciò che offende l’umanità è un atto etico e basta. Mi rendo conto che anche la scelta di ciò che lede la dignità della persona è un ulteriore argomento di discussione. Ed è proprio questo che mi sembra sia necessario recuperare nelle redazioni il confronto, la discussione , anche accesa quando serve: ossigeno per la nostra professione.

Troppo spesso i comitati di redazione si trovano a dover discutere di temi che poco hanno a che fare con quelli ben più grandi come la libertà di informare, la censura, i limiti delle scelte da poter fare come giornalisti. Mi sono domandata ultimamente, quanto sarebbe stata affollata un’assemblea convocata per parlare di come trattare il tema dei rifugiati e per avviare un confronto sul linguaggio da usare. Onestamente non ho saputo darmi una risposta, ma certo è indispensabile ricompattare le redazioni , ravvivare il dialogo e il confronto.
Senza questi credo il nostro mestiere perda progressivamente di senso e si rischi di dimenticare il ruolo importante del giornalista in una società che è quello di informare , certo, ma anche rendere possibile una crescita di consapevolezza e di civiltà.


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