“In questa società puoi permetterti solo di essere sfruttato”. Intervista al regista di “Storie sospese” Stefano Chiantini

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Stefano Chiantini, regista abruzzese dedica il suo ultimo film documentario “Storie Sospese” al lavoro, alla sicurezza sui luoghi di lavoro ma anche all’ambiente e al paesaggio spesso deturpato e sfruttato per fini meramente economici dall’uomo.
Con un cast di altissimo livello composto da Marco Giallini, Maya Sansa, Giorgio Colangeli, Alessandro Tiberi e altri, Chiantini ha scelto di ambientare la sua storia, che si ispira ad un fatto realmente accaduto, la frana che ha colpito Ripoli, un paese in Abruzzo, che è  anche la regione d’origine del regista.
Ne esce un Abruzzo ricco di paesaggi meravigliosi con immagini e riprese bellissime, dove però la natura viene messa a dura prova da chi non la ama né la rispetta anzi la danneggia per il solo gusto di farci dei soldi. Il giovane regista, che ha fatto dell’esplorazione dell’animo umano un ingrediente irrinunciabile della sua poetica, in questo film si concentra sui sentimenti e le emozioni legate al lavoro, sulla dignità dei lavoratori, sulla paura del licenziamento e sui contrasti morali che si scatenano davanti ai compromessi imposti per evitarlo, sulla responsabilità e sul desiderio di ribellione.

Stefano, è di questi giorni la notizia di un incidente sul lavoro proprio ad Avezzano, tua cittadina di origine. Mai come in questo momento la tua scelta di trattare i temi del lavoro appare dunque opportuna. Cosa ti ha spinto a farlo?
La decisione di trattare temi importanti come la sicurezza sul lavoro e l’ambiente è stata una conseguenza della scelta di raccontare la vita di un rocciatore (sono coloro che mettono in sicurezza le pareti rocciose). Inizialmente non pensavo di dare così tanto spazio al tema della sicurezza sul lavoro, ma andando avanti nella realizzazione del film, mi sono reso conto di quanto fosse importante mostrare e raccontare il contesto e le dinamiche lavorative in cui questi uomini sono “costretti” ad agire. Seguire la quotidianità di queste persone vuol dire avere a che fare ogni giorno e ogni istante con il rischio, con la fatica, con una realtà durissima e “fuori legge”. Un aspetto purtroppo ancora molto presente nella nostra società.

Quali sono le difficoltà che un regista incontra quando decide di affrontare un problema reale e lontano dai toni propri dell’evasione cinematografica come l’assenza di sicurezza nei luoghi di lavoro?
Le difficoltà che si presentano a chi decide di affrontare questi temi sono molteplici, perché purtroppo si tratta di temi molto concreti, e che quindi ai più farebbe comodo non denunciare e mostrare. Si incontrano quindi molte resistenze e davvero poca disponibilità.
Nello specifico del cinema però la difficoltà principale è la messa in scena di un mondo: quando si lavora ad un film e si racconta una realtà, la produzione e il regista sono costretti a raccontare un’ideale di realtà.
Mi spiego: nella vita lavorativa reale, i rocciatori lavorano in totale mancanza di sicurezza – a volte anche per loro scelta. Nella finzione un regista non può permettersi di mostrare questa realtà, ma deve raccontare una condizione lavorativa diversa, deve raccontare il modo in cui si dovrebbe lavorare e non il modo in cui si lavora (questo anche per mettere in sicurezza le persone che partecipano alla realizzazione del film).
Quindi si racconta un falso, e questa dal mio punto di vista è stata la difficoltà più grande e la rinuncia maggiore.

La bellezza e il paesaggio sono un binomio che il tuo film rende in un certo senso inscindibili. Quanto pensi che nel nostro Paese il tema della bellezza e della sua salvaguardia sia davvero sentito?
Credo che non ci sia una percezione reale dell’importanza del nostro paesaggio, almeno non nella maggioranza. Mi sembra che le persone siano vittime di una specie di “anestetizzazione”: abbiamo un bel paesaggio, sta lì, come una cartolina, immobile e intoccabile, consueto e scontato.
Non si rendono conto che gli interventi che si fanno sull’ambiente portano con loro un inevitabile cambiamento, un’alterazione, spesso un danno.
Io non sono contro le opere pubbliche – se fatte bene -, non sono contro neanche chi quelle opere non le vuole, anzi… Io sono contro chi vuole certe opere ma senza valutare e ammettere l’inevitabile impatto fisico sull’ambiente. Sono contro chi pensa che si possa fare tutto senza danneggiare niente.
Bisogna essere consapevoli che un certo tipo di progresso porta con sé “distruzione”  e se lo si vuole, bisogna accettarne le conseguenze. Io sono contro chi non ammette questo, contro chi vota per il progresso ma nello stesso tempo vota anche per l’ambiente.
Poi personalmente preferisco un ritmo di vita più lento, preferisco godere del nostro ambiente.

I tuoi personaggi si avvicinano al lavoro in modo molto diverso tra loro. Sono tuttavia accomunati dalla passione per quello che fanno e dalla profondità con cui lo vivono, una profondità che in certi casi li porta ad avere sentimenti contrastanti. Quanto pensi sia importante questo aspetto in un momento come quello attuale dove il lavoro cambia ed è sempre più precario?
Mi piacerebbe pensare alla passione come motore e anima di una scelta lavorativa. Purtroppo intorno a me vedo una realtà diversa, vedo persone costrette a fare tutt’altro da quello che avrebbero voluto fare, da quello per cui hanno studiato, investito tempo e denaro. Oggi la società gioca al ricatto, sei fortunato già se hai uno straccio di lavoro, qualunque esso sia, e devi tenertelo stretto, costi quel che costi. E questa secondo me è la causa di tanti mali, in parte anche della mancanza di sicurezza sul lavoro. Non puoi permetterti di sognare e desiderare un lavoro, non puoi permetterti di credere in un lavoro, non puoi permetterti di cercare di lavorare in un modo dignitoso e sicuro. Puoi permetterti solo di essere sfruttato.

Cosa pensi debbano fare le istituzioni per far sì che i luoghi di lavoro non siano più luoghi dove si possa trovare la morte?
Quest’ultima domanda è molto complessa.
Certo possono fare molto, formare una coscienza nelle persone che guidano le aziende e nei lavoratori, aumentare i controlli, cercare di ottenere delle condizioni più umane. Ma forse la cosa più importante sarebbe creare posti di lavoro, fare in modo che le persone non debbano aver paura di perdere il posto di lavoro (quel posto di lavoro, sottopagato, pericoloso…), in modo che non debbano accettare per forza certe condizioni davvero assurde ed umilianti. Se ci fosse lavoro per tutti, finirebbe l’arma del ricatto, le condizioni lavorative migliorerebber, perché le persone avrebbero la possibilità di scegliere, di dire “io in queste condizioni non ci lavoro”. Se un rocciatore sceglie di rischiare di morire, se una donna sceglie di rischiare di morire per tre euro all’ora, vuol dire che non poteva fare altro. questo dovrebbe cambiare, si dovrebbe poter decidere di fare altro.
So che è una visione molto utopistica, ma del resto la politica di oggi sta rendendo tutto utopia… basti pensare che oggi è utopia poter dire la propria all’interno di un partito. Allora se devo scegliere tra l’impossibile, scelgo il mio… Un sogno è un sogno.


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