Il pallone sul lettino. Ugo Amati, “la psicanalisi del calcio”

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Ci siamo messi in viaggio da Roma con la sua auto, cosa che non capita mai a causa di orari e impegni sfalsati. Eravamo leggeri come due liceali in gita fuori porta; da quanti anni ci conosciamo! Era il ’75 quando mi era stato presentato da Tonino Guerra: un gigante con il fisico da discobolo, gran conoscitore di femmine, in grado di dare un contributo non secondario al film TV che stavo preparando sul Casanova di Fellini. Ma anche quella volta i tempi non coincisero. Meglio così, avrei scoperto in seguito un personaggio del tutto diverso, un essere delicato e poetico imprigionato in quel simulacro di atleta romagnolo del bracciale, o tamburello. E avrei imparato a stimare Ugo Amati nella veste del creativo di razza, oltre che ragionatore sottile, cresciuto in Francia alla scuola e nel mito dello psicanalitica Jacques Lacan; uno degli ultimi allievi in circolazione, ortodosso e eretico al tempo stesso, dunque il massimo della sapienza dottrinale e della libertà cogitatoria. Lungo la strada verso Rimini, avvolti nell’azzurro trasparente della mattina estiva, Ugo aveva iniziato con rapsodica noncuranza a parlare della sua passione sportiva, il gioco del calcio, inquadrato però nel cono di luce della psicanalisi. Poiché gli avevo dichiarato di seguire poco o niente partite e campionato, il suo era stato un discorso propedeutico, rivolto al profano, sul più esaltante sport di squadra mai inventato.

Mi attirava con garbo nei sacri recinti, rivelandomi ombre e segreti, cabale e esaltazioni, con la lepidezza di un diacono dalle mani pure. Le squadre – scoprivo – oltre a un nome possiedono anche un destino e un carattere; rappresentano delle stelle fisse nel firmamento del football, le ipostasi intorno alle quali ruotano le passioni umane; e si appartiene all’una o all’altra per indecifrabile numinosità degli dei, restando quasi sempre irremovibili nella fede iniziale: “Non avrai altro Dio fuori di me!” E dal momento che via facendo mi scopriva non del tutto digiuno del culto, azzardava affondi più complessi, astrusità filologiche, che nella sua bocca assumevano leggiadria da merlettaia.

Durante una sosta, davanti al banco del caffè, mi stava illustrando un certo giocatore che calciava le punizioni a “foglia morta”; e il barista, che riempiendo le tazzine ascoltava con un solo orecchio, aveva interloquito con slancio da catecumeno: “Corso!”, quasi recitando un ‘oremus’. Apprendevo in quel momento che il gioco del calcio scorre tra gli adepti dentro un’invisibile esistenza parallela, e può affiorare in ogni istante come una ‘laude’. Rimasi sorpreso da quella improvvisa antifona liturgica nella terra di Jacopone che stavamo attraversando, e ancora più affascinato dalla disquisizione, ma che dico!, dall’omelia che ne era seguita sui più grandi campioni mai esistiti, se Baggio o Maradona (su di lui convergono anche gli apostati), se Cruijff o Rivera o Pelé.

E la gentilezza, la serenità degli argomenti, delle congetture, delle parafrasi, delle metafore ispirate, mi elevavano a un’accademia che poco aveva da condividere con l’irrespirabile violenza delle curve degli stadi. Ora so che tutto quanto Amati mi ha affidato per amicizia durante il viaggio, riguardava il contenuto in un libro appena uscito presso Tabula Fati, “La psicanalisi del calcio”: venti capitoli che adescano con irresistibile voluttà. Nei quali si conversa su ogni faccia del prisma iridescente, fornendo con ali di farfalla le ragioni serie e profonde di qualsiasi affermazione. Veniamo a sapere che Amati è ‘nerazzurro’: “L’Inter somiglia alla Cattedrale di Chartres. L’adoro”. Ma ancora più meraviglioso è ciò che segue, in cui si allude alla donna e al godimento: “Il gioco propugnato da Zeman, solitamente perdente, ha a che fare con questo ‘plusgodere’. Benché io sappia che gli interisti mi decapiterebbero, mi piacerebbe che una squadra fallica per tradizione come l’Inter si convertisse definitivamente a un’eterna sconfitta che profuma di paradisiaca vittoria. Lasciamo il godimento fallico alla Juventus…” . Nel capitolo della ‘Musica in campo’ l’autore arpeggia sul ‘do di piede’; e non solo: “A volte par di sentire il fruscio della rete quando si gonfia e accoglie nelle sue maglie il ‘fallo alato’. Si ode un suono a volte paradisiaco, altre volte insopportabile come il sussurro di una parola d’amore rivolta non a te, ma a un altro”. E ancora a proposito del fallo: “Come non vedere nel gesto di falciare l’avversario la minaccia di evirazione nel complesso di Edipo?” Riguardo al tifo: “Il tifo sta al gioco del calcio come il coro sta alla tragedia. Quando la palla esce di un pelo, dagli spalti parte un gemito di dolore. Forse esagero, ma quando ciò succede e guardo in faccia un tifoso accanto a me vi scorgo quantomeno un lamento estenuato. Può succedere di tutto a livello intrapsichico”. Sui fondamentali: “Lo sguardo di un giocatore mentre stoppa la palla, si rivela per quello di un matematico o di un fisico, quasi conoscesse preventivamente le leggi della natura”. La porta: “Ci sarebbe un buco nell’Io di ogni essere umano, una specie di porta vuota senza portiere. Questa porta è anteriore alla ‘porta-specchio’, al cui centro si istalla il portiere per parare i colpi che il suo Io, inteso come ‘moi’ gli rimanda”. Questi “Dialoghi platonici” sul calcio mi paiono il viatico più esaltante alla nuova stagione che si apre,ben sapendo quanto la passione possa innalzare il tifoso ai Campi Elisi, anzi fin sulle vette dell’Elicona: “L’Inter di Mourinho era cubista, con qualche tratto dadaista”.


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