Donne e sport, dilettanti per legge

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Grande successo sabato 26 settembre a Roma per il primo Meeting Nazionale dello Sport Femminile.

Di Mara Cinquepalmi
L’emozione non ha voce, diceva Adriano Celentano in una nota canzone di qualche anno fa. Eppure il Molleggiato si sarebbe ricreduto se sabato 26 settembre avesse partecipato al Meeting Nazionale dello Sport Femminile a Roma e avesse ascoltato le storie di sport e discriminazione che tante atlete di ieri e di oggi hanno raccontato.

Promosso Assist- Associazione Nazionale Atlete, Associazione Italiana Calciatori A.I.C., Giocatori Italiani Basket Associati G.I.B.A., Associazione Italiana Pallavolisti A.I.P.A.V., Associazione Italiana Rugbysti A.I.R., Associazione Italiana Giocatori di Pallanuoto A.G.P. e Associazione Italiana Allenatori di Calcio A.I.A.C., il meeting ha fatto il punto sulla situazione dello sport femminile in Italia, ma è stato anche il momento per confrontarsi e proporre soluzioni. A partire dal disegno di legge che vuole modificare la legge 91/1981, ai sensi della quale nessuna disciplina sportiva femminile è qualificata come professionistica causando rilevanti differenze di genere in ambito sportivo.

E’ stata la vice presidente del Senato Valeria Fedeli ad aprire i lavori e ad illustrare il ddl che porta la firma di numerosi esponenti della Seconda Camera, tra i quali la senatrice Josefa Idem presente al Meeting.

“Occorre riconoscere – ha detto Fedeli – il valore economico, sociale e culturale che fino ad oggi allo sport femminile è stato negato in Italia. Questo ritardo normativo nega dignità alle atlete”.

Difficile sintetizzare quattro ore di interventi, alcuni dei quali sinceramente commossi e partecipati.  Calciatrici, cestiste, pallavoliste, dirigenti si sono alternate sul palco raccontando la propria esperienza. Come quella di Manù Benelli, storica pallavolista, che ad un certo punto della sua carriera ha dovuto firmare un contratto omofobo, oppure come quella di Lavinia Santucci, giovane cestista che ha dovuto pagare di tasca propria i costi di un brutto infortunio visto che la società non aveva l’assicurazione anche se prevista nel contratto.

Tutte hanno sottolineato l’urgenza di fare qualcosa soprattutto per le atlete di domani. Come Arianna Cau, snowboarder trentina ventunenne che ha scosso la platea con il racconto dei suoi sacrifici: “Mi devo pagare anche le iscrizioni alle gare e per spostarmi uso un furgone. Niente albergo o ristoranti”. Ha guidato da sola da Rovereto a Sarajevo per partecipare ad una gara perché “una donna – ha detto – non fa sport per i soldi, ma per la passione che ha dentro”.  Sacrifici e passione che le federazioni ed il Coni (tra l’altro nessun esponente del Coni ha partecipato, nonostante ripetuti inviti) ignorano. “Quest’estate – racconta Cau – ho ricevuto una lettera dal Coni che mi inviava una medaglia al valore atletico. E’ un po’ come il biscottino che dai al cane. Io voglio che la federazione mi dia mezzi e strumenti per allenarmi e andare alle Olimpiadi”.

Tra gli interventi anche quello di Stefania Passaro, ex cestista ed oggi consulente finanziaria, che ha voluto affidare al nostro sito una breve testimonianza: “Sabato 26 settembre 2015, primo Meeting dello Sport Femminile, un giorno che ha la forza del mare. Di un mare di donne, una squadra di migliaia, talenti straordinari non soltanto sportivi: atlete plurimedagliate, famose in tutto il mondo, qui in Italia incomprensibilmente, ingiustamente, ignorate dalla legge, dal CONI e dalle rispettive Federazioni. Dilettanti per regolamento ma professioniste di fatto, fanno o hanno fatto dello sport il loro lavoro prevalente, ma sono prive da sempre di un contratto di lavoro che le tuteli in caso di maternità e di infortunio, ognuna scippata di quindici, vent’anni di contributi previdenziali, contributi ai quali, se solo fossero uomini, avrebbero avuto diritto. Atlete, come Flavia Pennetta, Federica Pellegrini, Tania Cagnotto, visibili sui podi delle competizioni più prestigiose del mondo ma praticamente invisibili sui media italiani, dove infatti si parla di loro solo nel 3% delle notizie totali.

Sono stata un’azzurra della Nazionale del Basket, una delle migliaia di invisibili con il petto pieno di medaglie, e negli scomodi panni di atleta e giornalista pubblicista ho più volte denunciato la discriminazione e gli stereotipi nello sport. Scomodi, i panni, anche in senso letterale, perché durante i ritiri in Nazionale, agli Europei o ai Mondiali, nelle brevi pause fra i due o tre allenamenti giornalieri o dopo le partite ci toccava lavare nel lavandino delle nostre stanze gli indumenti usati per poi stenderli ancora gocciolanti su fili di fortuna con le mollette portate da casa, o finire di cucire le divise, mentre per i nostri colleghi era previsto un puntuale servizio di lavanderia e sartoria, diaria giornaliera tripla e premi partita dieci volte più alti dei nostri. E sempre a proposito indumenti, mi ricordo di quando io e una mia compagna fummo costrette dalla regista -sí, da una donna! – di un noto salotto televisivo della RAI ad indossare calzoncini e maglietta ancora sporchi per la finale dello scudetto vinta la sera prima, per permettere al cameraman di inquadrarci in diretta in piedi, sull’attenti, a dieci centimentri di distanza dalle nostre gambe scoperte, per mostrarne tutta la lunghezza”.

Donne, sport e informazione, come ricorda Stefania, è una questione che a noi di Giulia riguarda da vicino e su cui siamo impegnate a denunciare le discriminazioni.

Presto sul sito di Assist saranno disponibili i video degli interventi. Noi intanto cominciamo a contare i giorni che trascorrono dal Meeting alla modifica della legge.


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