Come neutralizzare la fabbrica dell’odio

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Centinaia di persone (terroristi, assassini, delinquenti e bruti di ogni foggia, come vorrebbe dipingerli la fabbrica dell’odio e della paura) annegano nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo e, insensatamente, migliaia di cittadini italiani (brava gente) ringhiano la loro gioia e soddisfazione da dietro le loro tastiere e dall’alto della loro decantata civiltà, improvvisamente minacciata da un nemico immaginario che è più rassicurante sapere in fondo ai nostri mari piuttosto che in mezzo alle nostre piazze. Per giorni i media rilanciano, tutti uguali, le voci della politica, dall’indolente costernazione progressista alle sprezzanti istigazioni neofasciste. Nel mezzo, un cantante di lungo corso esprime il proprio cordoglio per le vittime e viene subissato di insulti, ai quali (da provetto social media manager) risponde con misura, confutando le rabbiose falsità con cifre e fatti.

Una città come Roma è sporca, addirittura “fa schifo”, infestata com’è dal DEGRADO imperante (metafora esogena di un problema tutto endogeno). Ma quella che, dai blog ai social network, dovrebbe essere una denuncia civica collettiva assume invece la forma di un’aggressione virulenta e meschina, dove la malizia cavalca l’ignoranza nel confondere gli effetti con le cause – prendiamo ad esempio gli attacchi anonimi brutalmente rivolti al povero che rovista nei cassonetti dell’immondizia, mentre si ignora chi quei cassonetti dovrebbe svuotarli e non lo fa, a fronte di responsabilità evidentemente riconducibili ai vertici aziendali e istituzionali competenti.
Poi c’è il ragazzetto che si inventa un sito Web, dove raccoglieva storie truci che avevano come protagonisti i migranti, fomentando così l’odio e la paura nei loro confronti. Peccato che, oltre a essere raccapriccianti, le storie fossero tutte false, inventate di sana pianta. Ma ciò non impediva al gestore del sito, ora chiuso per istigazione alla discriminazione razziale, di essere ricompensato con migliaia di like e condivisioni, nonché con i soldi della pubblicità che ne derivavano. D’altronde, lo fanno anche i ‘professionisti’ dell’informazione, come testimonia il caso allucinante di Affari Italiani e il suo feroce copia-incolla di una regolare notizia diffusa da La Nuova Venezia riguardo la protesta violenta di alcuni occupanti abusivi di case popolari, usando però l’accortezza di modificare un piccolo dettaglio: i protagonisti, che da italiani diventano stranieri, alla cui azione, come se non bastasse, viene attribuito il dichiarato intento di ledere ai nostri connazionali più bisognosi. Ed ecco che la bomba è servita. Tralasciando gli aspetti deontologici, è evidente che una simile operazione di mistificazione porta con sé il rischio (o l’obiettivo?) di scatenare una vera e propria guerriglia sociale, e nel frattempo magari di vendere anche qualche copia in più – o viceversa, poiché cotanta cinica aberrazione confonde su quale sia il reale core business di un’impresa come Affari Italiani.

Pochi giorni fa una soubrette si è rotta un femore in diretta televisiva per una spaccata eseguita male. Un episodio di per sé innocuo, se non per la poveretta, eppure il primo commento in cui mi sono imbattuto nel guardare il video della disavventura prontamente caricata su YouTube è stato: “Neanche più capaci di aprire le gambe ‘ste mezze fighe di oggi. Buttatela nell’immondizia”. Bile gratuita condensata in un commento disturbante da leggere e imbarazzante anche solo da trascrivere.

Ecco, questo è l’humus in cui, troppo spesso, nascono i dibattiti che si consumano tra sedi istituzionali, web, Tv, carta stampata e chiacchiere da bar – che poi, sempre più sovente, quasi si sovrappongono, indistinguibili per qualità, puntualità e profondità dei commenti espressi. Lo stesso humus all’origine dello sconforto e del disgusto che qualche settimana fa, di fronte all’ennesima balla livorosa di Salvini (quel giorno si era inventato la storia dei posti riservati ai migranti su un traghetto Tirrenia, mentre gli italiani erano costretti a viaggiare dormendo a terra, salvo poi essere sbugiardato dagli stessi viaggiatori e scoprire che era solo una questione di prenotazioni e tariffe: i posti a terra costano meno!), mi ha fatto tracimare e suggerire che i vari Twitter e Facebook dovrebbero iniziare a bannare atteggiamenti di chiaro razzismo e incitamento all’odio, piuttosto che scandalizzarsi per un capezzolo mostrato in una qualche foto personale.

Al che un fine osservatore e maestro di giornalismo mi ha rammentato che “nessuno deve bannare nessuno per le ‘fesserie’ che dice … Vanno combattuti, vanno contestati, vanno – se ci riusciamo – battuti, ma ho orrore di un mondo dove c’è qualcuno che stabilisce cosa sia giusto o sbagliato dire, tanto più se questo qualcuno è una società quotata americana che risponde, nella misura in cui risponde, solo ai suoi azionisti”.

Naturalmente aveva ragione. D’altronde è un principio che ho sempre sostenuto anch’io con ferma convinzione e, sfoghi estemporanei a parte, ritengo che peggio dei commenti dei vari Salvini ci sia solo il fatto che tali commenti siano esprimibili o meno in base a decisioni prese dall’azienda di turno. Certo resta ferma l’inutile ipocrisia di censurare un seno nudo mentre si difende la libertà di offendere, se non peggio. Resta pure il fatto che questo teatro grottesco genera ottimi introiti oltre che pessimi sentimenti e, anche in virtù di ciò, potrebbero essere opportuna una qualche forma di regolamentazione/policy più puntuale in materia. Soprattutto, sostengono alcuni, nel caso di personaggi pubblici; personalmente, pur consapevole del peso e dell’influenza di tali personaggi, non sono favorevole all’idea di policy studiate su misura di uno status che, ancora una volta, chi sarebbe deputato a stabilire?

Piuttosto che impedire l’accesso a questa o quella piattaforma (che poi sarebbe presumibilmente sostituita con altri sfogatoi, con derive magari anche peggiori), bisognerebbe contrastare e rieducare i cosiddetti hater, a partire dall’isolamento di certe posizioni. Per fare questo, tuttavia, non basta una modifica regolamentale, ma occorre una bonifica culturale. E spetta a noi tutti attuarla  – addetti ai lavori e non. Quella che ci aspetta è dunque una battaglia culturale, strutturale, capillare, che parte dal pensiero per approdare al linguaggio: la pigrizia con cui lo usiamo piuttosto che l’assuefazione con cui lo recepiamo. 
Dal pensiero alla parola all’azione. E mi vieni in mente che forse l’atteggiamento giusto è quello di Dani Alvez, ex campione del Barcellona. Per insultarlo gli lanciarono una banana dagli spalti: lui la sbucciò, la mangiò e tirò il calcio d’angolo. Più forte di prima. Con un gesto tanto naturale quanto potente ha neutralizzato un atto d’odio, ridicolizzandone gli artefici e ribaltandone gli effetti.


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