Sfiancarsi per non deprimersi: il lavoro a cottimo che uccide i braccianti

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Caporalato, reportage dal Ghetto di Rignano Garganico dopo la presunta morte di un raccoglitore africano. Malnutrizione, fratture, ematomi, mal di schiena, ferite, problemi respiratori: tutti accusano malattie gravi, ma si sforzano lo stesso in modo esagerato per raggranellare qualche euro in più

RIGNANO GARGANICO (Foggia) – Malnutrizione, fratture, ematomi, mal di schiena, eritemi cutanei, febbre, ferite per incidenti stradali su strade buie e sconnesse, problemi respiratori. Che sia confermata o meno, la notizia della morte di un lavoratore maliano impegnato nella raccolta di pomodori nelle campagne di Foggia, diffusa ieri dal responsabile della Flai-Cgil pugliese Ivan Sagnet, non è comunque che la punta di un iceberg fatto di condizioni di lavoro e vita quotidiana al limite della sopportazione.

Lo sanno bene gli operatori del progetto Italia di Emergency, presenti quattro pomeriggi la settimana, con i propri ambulatori mobili, accanto all’uliveto che segna l’ingresso del Gran Ghetto. La baraccopoli al confine tra foggia, san severo e Rignano Garganico è la più grande della zona e durante la stagione della raccolta del pomodoro supera le duemila presenze. Le condizioni sono comuni alle decine di altri insediamenti spontanei che si formano sul territorio a cominciare dalla primavera, e in alcuni casi rimangono popolati fino a dicembre, fino al termine della raccolta delle olive.

Tra i lavoratori del Gran Ghetto la voce che parla di almeno una persona morta circola insistentemente da almeno una settimana e viene data per certa, ma non si trovano testimoni oculari del fatto. Chi lo racconta lo ha sentito da un amico, e il numero di “cassoni” di pomodoro che l’uomo avrebbe caricato nel giorno della sua morte per sfinimento varia da oltre 40 fino a 57.

Già, perché è il lavoro a cottimo il primo dei grandi mali della vita dei braccianti. Uomini giovani, robusti, abituati a faticare, i corpi scolpiti dal lavoro duro (al quale, per chi ha la fortuna di avere una bicicletta, si sommano anche 80 km di pedalata al giorno tra andata e ritorno dai campi).

Dei presunti 57 cassoni della presunta vittima si parla con un filo di ammirazione o comunque di sacro terrore. “È orribile che di questo sforzo immane se ne parli come fosse una cosa bella”, commenta A., uno studente 22enne che a lavorare al ghetto è venuto più per maturare una propria coscienza che per reale bisogno. Eppure è così. Più alto il numero di cassoni, meno deprimente il calcolo del guadagno a fine giornata (si moltiplica per 3,5 euro a cassone, già al netto della trattenuta dei caporali, e poi si sottraggono i 5 euro del trasporto ghetto-campo).

E così sono in tanti a sforzarsi esageratamente. E ad ammalarsi. Magari non fino alla morte, ma spesso fino a star male per tanti giorni da annullare il vantaggio delle faticate precedenti. Inutile precisare che quasi nessuno ha contratti di lavoro, e quindi nessuno ha diritto a infortunio o malattia. Per la rara eventualità di controlli il “capo nero” custodisce le fotocopie dei permessi di soggiorno per poter sostenere che il bracciante è in prova e che il contratto si farà l’indomani.

Il lavoro di raccolta fa male prima di tutto alla schiena. Poi ci sono i piedi, che naturalmente non calzano scarpe antinfortunistiche, ma babbucce di gomma traforata che sarebbero perfette per camminare sugli scogli ma certamente non proteggono a sufficienza. A M., 26 anni, la caduta di un cassone sul piede sinistro (il peso a vuoto è di circa 20 kg) ha provocato un ematoma che gli ha impedito di lavorare per dieci giorni. “Il capo è venuto a trovarmi e mi ha dato dieci euro, e al ritorno al lavoro mi sposterà alla macchina, che è un lavoro più leggero”, racconta, quasi grato della magnanimità. Quasi inutile dirgli che avrebbe diritto a ben altro risarcimento. Il ghetto e le campagne circostanti sono da anni mondi paralleli dove le leggi italiane non vigono.

E poi c’è l’infezione di A., che si è ferito mentre cercava di salvare alcune baracche dall’esplosione di un tubo dell’acqua che aveva subito prodotto un fiume di melma. Grazie alla sua segnalazione si è evitato l’allagamento, ma gli sono toccati cinque giorni di antibiotico. E nel Ghetto l’acqua per cucinare e lavarsi non ha ricominciato a essere disponibile che 36 ore dopo.

E poi c’è la fatica quotidiana delle code per l’acqua potabile. Gli scoli d’acqua a cielo aperto. I soli venti wc chimici che vengono puliti ogni due giorni. I rifiuti che non vengono raccolti a causa delle dispute territoriali tra i tre comuni su cui insiste il Ghetto, e che quasi ogni sera vengono bruciati, smettendo di essere preda di mosche e topi e trasformandosi in portentose fonti di diossina. Poi c’è la polvere che entra nel naso e nella gola e fa tossire.

E poi, specialmente quest’anno di piogge scarse, c’è la carenza di lavoro. I braccianti sono aumentati, non ci sono pomodori per tutti e molte aziende hanno iniziato a usare le macchine per la raccolta che sostituiscono forza lavoro umana.

Di questo lavoro che fa così male non ce ne è neanche abbastanza per tutti. E sono sempre di più quelli che mangiano poco, il minimo indispensabile, praticamente solo riso e pane per non erodere ancora di più i guadagni già magri della trasferta stagionale.

Nei ghetti dei raccoglitori si muore un po’ tutti i giorni, poco alla volta. (Giulia Bondi)

Da redattoresociale


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