Tragicommedia italo-siciliana

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Non spetta a noi stabilire se sia mai avvenuta la telefonata fra il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta, e il suo medico personale, dottor Matteo Tutino, nella quale, stando a ciò che riporta “l’“Espresso”, quest’ultimo avrebbe pronunciato una frase irripetibile all’indirizzo dell’allora assessore regionale alla Sanità, Lucia Borsellino, figlia del giudice Paolo Borsellino, assurto giustamente a emblema della lotta alla mafia ma sempre più spesso ignorato nei valori, nelle denunce e nello spirito di servizio e sacrificio estremo col quale lavorava.

Perché è proprio il rigore morale, la sobrietà, l’onestà, l’intransigenza, la radicalità che non sfociava mai nell’insulto o nel radicalismo, sono proprio questi princìpi etici ad essere oggi andati perduti, come testimonia il perdurante e diffuso malaffare che ci eravamo illusi di esserci lasciati alle spalle alla conclusione di Tangentopoli e, invece, è divenuto la moderna autobiografia della Nazione.

A noi, ripetiamo, non spetta il compito di emettere condanne o stabilire se Tizio o Caio sia degno o meno di ricoprire la carica che attualmente ricopre: possiamo anche avere un’opinione in merito (e personalmente credo che Crocetta, per mille motivi, farebbe meglio a passare la mano) ma non possiamo lasciarci influenzare dalla medesima nello svolgimento della nostra analisi. Il nostro compito, al contrario, è quello di denunciare la situazione ormai insostenibile della Sicilia: una regione che, con otto miliardi di deficit, rischia il default, con conseguenze che farebbero sembrare la Grecia un’isola felice rispetto allo sfacelo che potrebbe venirsi a creare “nella terra dei vespri e degli aranci”.

Non è tutta colpa di Crocetta: piaccia o meno, l’eccentrico governatore, ex sindaco di Gela, ex simbolo dell’anti-mafia, cattolico, comunista, dichiaratamente omosessuale e ricco di numerose altre virtù, sta lì da meno di tre anni e, pur avendo la responsabilità di aver governato piuttosto male, bruciando quasi quaranta assessori a causa delle fibrillazioni e dei contrasti che hanno segnato un’azione amministrativa palesemente insufficiente, non è certo lui la causa dello sfacelo di una terra in cui la mala pianta mafiosa la fa da padrona fin dai tempi in cui i soli a denunciarla erano Danilo Dolci e un esiguo gruppo di intellettuali, emarginati e derisi al grido: “La mafia non esiste!”.

Non è colpa di Crocetta se un’intera regione, e in particolare il suo sistema sanitario, è stata spolpata, infiltrata, devastata e, infine, abbandonata a se stessa, fra disoccupazione, indigenza, ladrocini continui, trasformismi e la totale destrutturazione del sistema partitico: mali atavici dell’isola, divenuti negli ultimi anni veri e propri cancri che hanno finito col dissanguare quel briciolo di cultura politica di cui erano portatori i Pio La Torre e i Piersanti Mattarella, Leonardo Sciascia e Peppino Impastato, figure poco amate dai maggiorenti della politica siciliana, figure tragiche e in molti casi finite male ma che, comunque, un seme di democrazia e giustizia sociale l’avevano gettato.

No, non è tutta colpa di Crocetta e usarlo come capro espiatorio per coprire responsabilità ben più gravi e persistenti sarebbe ipocrita e intollerabile: in Sicilia sta collassando un sistema diffuso e radicato di malaffare e sporcizia, di connivenze e collusioni, di “amici degli amici” disseminati ovunque e di professionisti dell’anti-mafia che, in realtà, adottano metodi e sono permeati da una cultura pienamente mafiosa; in Sicilia stanno venendo al pettine nodi che nessuno ha mai voluto sciogliere, per il semplice motivo che sono i cardini sui quali si regge un sistema marcio ma che fa comodo a molti, senz’altro ai burattinai che tirano le fila nell’ombra, qualunque sia il loro colore politico o i loro intenti manifestati in pubblico.

Ciò che dovrebbe preoccuparci, dunque, sono le possibili conseguenze della presunta telefonata Crocetta-Tutino, la quale ha dato adito a tutti i cultori delle censure e dei bavagli per scagliarsi contro l’“intollerabile abuso delle intercettazioni” e chiederne l’abolizione o, comunque, la sparizione dalle cronache giudiziarie.

Ora, intendiamoci: qualunque abuso deve essere sanzionato, anche duramente, ed è sacrosanto pretendere un’udienza filtro per separare le notizie di reato, le trame oscure di un personaggio pubblico e le schifezze che è doveroso che la gente conosca dalle conversazioni private con la moglie o con il figlio, fossero anche la moglie o il figlio di un boss mafioso. Allo stesso modo, bisogna condannare senza appello e radiare all’istante dall’ordine quei giornalisti che fanno della macchina del fango, del tritacarne mediatico e della barbarie legalizzata la propria cifra professionale. Da qui a dire che bisogna compiere ulteriori strette su quest’imprescindibile strumento d’indagine, però, ce ne passa e riteniamo più che fondati i timori espressi dal pm Nino Di Matteo, il quale ben conosce i rischi connessi a queste ondate di indignazione montate ad arte, al solo scopo di rendere ancora più complicata la vita a chi tenta di far luce su scandali, ruberie e punti oscuri di una vita politica nazionale mai così triste e disarmante.

Ciò che dovrebbe farci stare con le antenne dritte, pertanto, non sono le conversazioni telefoniche di Crocetta o di qualcun altro, vere o presunte che siano, ma il fatto che la stretta sulle intercettazioni va di pari passo con la riforma dirigista della RAI, con lo stravolgimento della Costituzione, con la contro-riforma della scuola e con mille altri pessimi provvedimenti che compongono un quadro nitido e indicano una direzione di marcia chiarissima verso un regime sempre meno democratico, nel quale i cittadini non sono più tali ma al massimo sono declassati al rango di spettatori: pubblico pagante di uno spettacolo di terz’ordine, col diritto costante all’applauso ma senza più i mezzi, né l’effettiva possibilità, di esercitare quello di critica.

Questo dovrebbe indignarci, indurci a scendere in piazza, ad annunciare cortei, sit-in, battaglie e manifestazioni; ma soprattutto, questo dovrebbe spingerci a far sapere, sin d’ora, a Renzi e ai suoi sodali che noi continueremo a svolgere il nostro lavoro con la stessa passione e lo stesso impegno di sempre, senza coprire né cercare scuse né per quei colleghi che hanno trasformato i propri giornali in autentiche cloache o, peggio ancora, in manganelli mediatici a danno degli avversari di turno né per quella classe politica che vorrebbe inibire il diritto di noi cronisti di informare e, più che mai, quello dei cittadini ad essere informati. O, più semplicemente, cittadini e non sudditi.


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