Restituiamo speranze a una generazione perduta

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Lo scorso ottobre eravamo ad Assisi, ospiti di padre Enzo Fortunato, quando affrontammo il tema delle tante periferie da illuminare: nacque allora l’idea di costituire la rete delle reti, un insieme di associazioni che, unendosi, sarebbero state in grado di far conoscere alla collettività i drammi, le esigenze, i bisogni e i tormenti di tante realtà tragicamente dimenticate dalla disattenzione indifferente del calderone mediatico.

Una comunità, dunque: questo era e resta il nostro intento; un luogo d’incontro, uno spazio di riflessione, di dibattito, di discussione e di confronto, negli anni vuoti e drammatici del “ghe Renzi mi”, dell’egoismo e dell’individualismo sfrenato, della supremazia bancaria e finanziaria e dell’annullamento delle persone, della loro centralità, della loro dignità, ormai richiamata soltanto da papa Francesco e da qualche volenteroso missionario, tipo padre Dall’Oglio, le cui parole e i cui gesti sono tanto applauditi in superficie quanto ignorati e derisi nel profondo.

Fu in quell’occasione che chiesi espressamente ai colleghi presenti di andare ad illuminare, tutti insieme, quella che definii la “periferia umana”, a cominciare dalla mia generazione: disillusa, abbandonata, sola, ormai rassegnata al peggio, sempre meno partecipe alla vita politica, benché animata da una passione e da un impegno civile assolutamente encomiabili, come dimostrano le iscrizioni all’A.N.P.I e il crescente successo del volontariato.

Il guaio, e qui l’analisi si fa strettamente politica, è che quando la mia generazione si affaccia ad un partito, magari incuriosita, magari affascinata, il più delle volte desiderosa di mettersi in gioco e dare un contributo, riceve quasi sempre rifiuti o richieste insostenibili, come l’adesione a questa o a quella corrente o il sostegno a questo o quel candidato, a questo o a quel consigliere, deputato o senatore; in pratica, non un ingresso libero, basato sulle idee, le proposte e lo scambio di opinioni ma l’affiliazione a un comitato elettorale permanente che, ovviamente, finisce con l’uccidere qualunque passione e con lo spegnere qualunque entusiasmo.

E qui subentra un’altra categoria, fastidiosa e per lo più insipiente: quella dei commentatori tuttologi, i quali non perdono occasione per descrivere i giovani come “apatici, privi di ideali, vuoti, intenti unicamente a pensare a se stessi, poco lungimiranti” e via elencando, con la scontata conclusione che sono anche contrari all’innovazione e al cambiamento, in quanto, guarda caso, restii ad accordare il proprio consenso alle pessime riforme che da vari governi a questa parte si agitano sulle loro teste, compromettendone progetti di vita e futuro.

L’unico, tra i governanti, che ha provato a fare qualcosa per le nuove generazioni è stato Letta (la riforma Carrozza della pubblica istruzione andava in questa direzione, alcune proposte di Giovannini sul lavoro pure) ma è durato troppo poco e il suo contributo si è rivelato insufficiente, a fronte della gravità di un contesto che vede, in alcune regioni, una disoccupazione giovanile a livelli greci, una disperazione senza precedenti e la totale mancanza di prospettive per il domani. Non a caso, oltre a dover fronteggiare i processi migratori dall’Africa in fiamme, il nostro Paese è ormai costretto a fare i conti anche con quella che un tempo veniva chiamata gentilmente “fuga dei cervelli” ma che oggi si configura come un vero e proprio esodo: il lento e costante addio di ragazzi che già alla fine del liceo hanno chiaro in mente il proposito di andarsene all’estero, coscienti del fatto che in Italia il merito, di cui tanto si riempie la bocca la peggior classe dirigente che si sia mai vista, è un’utopia, le competenze contano meno delle raccomandazioni e, soprattutto, ed è l’aspetto che maggiormente dovrebbe inquietarci, del fatto che questo è un paese in declino, privo di riferimenti etici e culturali, di valori, di possibilità, sfibrato e in guerra con se stesso; un paese che non offre alcuna occasione di riscatto a chi ha la sfortuna di nascere in basso; un paese in cui l’ascensore sociale si è bloccato e l’istruzione è diventata un privilegio per i pochi “nati bene” anziché un diritto costituzionale alla portata di tutti.

Una miniera d’oro: questo sarebbe la mia generazione se non fosse stata condannata al precariato a vita dal Jobs Act e dal Decreto Poletti, se non avesse dovuto subire riforme scolastiche e universitarie sbagliate e dannose, se non avesse davanti a sé il baratro dell’incertezza e della paura di un avvenire dai contorni indefiniti, se non fosse fragile ormai anche psicologicamente, dopo esser cresciuta troppo in fretta, in anni disperati, fra aziende che chiudevano, padri e madri che venivano licenziati, in alcuni casi vere e proprie tragedie familiari, nel contesto di una società sempre più debole, in cui la convivenza civile è stata sostituita da una sorta di lotta per la sopravvivenza, da una “corsa verso il nulla” – per dirla col professor Sartori – in cui non esiste più alcuna forma di solidarietà, di amicizia, di condivisione, in cui lo scontro è la regola e il ragionamento l’eccezione, in cui gli ultimi sono destinati a soccombere e i più forti ad avere sempre la meglio.

Una generazione che conosce le lingue, ha visto e conosciuto il mondo, sa usare al meglio le nuove tecnologie ma non ha un orizzonte, una visione, una direzione di marcia né alcun modello cui ispirarsi; una generazione che è già un miracolo se ancora riempie le piazze, se ancora lotta, se ancora si batte per un qualche ideale, che sia la difesa della scuola dall’assalto del duo Renzi-Giannini o quella del lavoro dalle pessime riforme di questo governo e dagli ordini pressanti impartiti da Draghi e dalla tecno burocrazia di Bruxelles.

Una generazione nata dopo la caduta del Muro di Berlino che pure si riconosce pienamente nello spirito della Costituzione; una generazione orgogliosa di definirsi “partigiana”; una generazione che, in questi anni, ha avuto il merito di tenere alta l’attenzione su temi come il precariato, il mobbing e la sicurezza nelle scuole e sui luoghi di lavoro; una generazione attenta e propositiva, ferma nella critica e costruttiva nelle idee che esprime: non è certo un patrimonio corale ma posso assicurarvi che la maggior parte di noi si riconosce in questa descrizione e avverte la necessità di impegnarsi e battersi in prima persona, recuperando quello spirito di comunità che per trent’anni è stato calpestato e considerato, a torto, un rudere del passato.

Questo è il famoso capitale umano che avremmo a disposizione: siamo pronti, cara sinistra, a valorizzarlo, a coinvolgerlo e a renderlo protagonista del grande progetto di cambiamento e rinnovamento del Paese che intendiamo portare avanti?


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