“Merito e demerito”: anche per l’università, smarrito il buon senso

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Fa discutere l’emendamento proposto dal Deputato del Pd, Marco Meloni, circa il diverso peso da attribuire alla Laurea conseguita in base all’ateneo frequentato, metro da utilizzare come soglia di sbarramento per l’accesso ai concorsi pubblici nella Pubblica Amministrazione. Già qualche anno fa, si era esaminato il valore legale del titolo di studio sollevando non poche disamine da parte di esperti del settore e docenti universitari. Al tempo, sia la Conferenza Stampa dei Rettori delle università italiane CRUI che quella per la Società italiana per lo studio della storia contemporanea, pubblicarono un mio articolo, tratto da Il Riformista, dal titolo “Deficit di sistema e danno generazionale (cfr. http://www.sissco.it/articoli/valutazione-della-ricerca-1147/)

Ora ci risiamo, si tenta nuovamente di classificare la laurea conseguita quantificando la preparazione dello studente mediante un criterio non solo univoco, ma meramente oggettivo, fondandolo su una “credibilità” dell’istituto che si è frequentato. In primo luogo, la preparazione di ogni studente non è quantificabile e non è direttamente correlata all’università frequentata. A un Ateneo disorganizzato, specie per l’altissima affluenza di studenti, consegue il maggior numero di studenti scarsamente preparati? Certo che no. Anzi, il maggior numero di presenze è motivo per sviluppare un’ottima capacità di confronto e dunque, di sana competizione, elemento che servirà per proporsi con incisività nel mondo del lavoro. In secondo luogo, se così fosse, si dovrebbero classificare anche gli istituti scolastici di provenienza, arrivando così a distinguere i licei dagli istituti professionali o tecnici. La classe dirigente italiana, invece di arrovellarsi così strenuamente su questioni ininfluenti, dovrebbe prioritariamente interrogarsi sulla costituzionalità delle norme che vorrebbero veder legittimate. Innanzitutto, dovrebbero chiedersi se gli articoli 33 e 34 Cost. siano effettivamente garantiti e mi riferisco al diritto delle Università, Accademie e Istituzioni di alta cultura di darsi ordinamenti autonomi e al principio solidaristico secondo cui” i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti negli studi”. Inoltre, l’emendamento proposto aprirebbe un ovvio scontro, difficilmente sanabile, tra atenei del nord e del sud e, come conseguenza naturale, potrebbe dare il via anche a una diversa valutazione dei suoi docenti, di serie A e di serie B. I politici, piuttosto che preoccuparsi di come favorire ristretti gruppi di laureati in base alla provenienza accademica, trovi degli strumenti di valutazione adeguata ai tempi per misurare le capacità degli attuali dirigenti pubblici che, sempre più spesso, appartengono alla schiera di personale nominato per decreto, o per mera anzianità di servizio,  raramente assunto per concorso pubblico esterno. Il danno generazionale è già compiuto, sarebbe ora di sanarlo ripartendo dalle garanzie previste dalla nostra Carta costituzionale, in special modo dall’art.3,  ripartendo dalla considerazione dei titoli culturali raggiunti dai consociati di uno stato di diritto perché, specie la materia giuridica, al nord come al sud, non può che essere eguale, essendo essa resa speciale unicamente dalle persone che ci educano alla sua comprensione.


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