Erdogan all’attacco. In casa e fuori

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“Ho pagato sedicimila dollari per riavere con me la mia famiglia. E nonostante questo alcuni di loro sono stati uccisi sotto i miei occhi. Daesh dopo avermi mostrato cosa avevano fatto mi ha dato una sola possibilità, quella di pagare per averli indietro. Ho venduto tutto quello che avevo e ora mi trovo a vivere così, dentro una tenda. Per riaverli indietro ho dovuto vendere tutto, ma ancora non bastava. Così mi sono fatto aiutare e grazie al cielo ora sono di nuovo con me. Ci sono degli intermediari che portano i soldi e si fanno consegnare gli ostaggi. Non è solo la mia famiglia che ha subito questo in Iraq. Noi abitavamo a Sinjar ma ora solo qui mi sento al sicuro.” E’ un racconto struggente quello di quest’uomo cui neppure ho chiesto il nome da quanto ero turbato dalle sue parole. Eppure lui era quasi imperturbabile. Occhi fissi, sguardo deciso, non un tentennamento. La ferita però rimane aperta, lacerante. Sono in migliaia che vivono accampati non lontano da Dohuk, sulla strada che porta verso Lalish, la città sacra degli Ezidi. Popolo che da sempre vive in questa parte di mondo, un po’ in Siria e un po’ in Iraq. Non sono cristiani, non sono musulmani, sono semplicemente Ezidi. E non Yazidi come si dice erroneamente. Saddam li chiamava così per affermarne la loro accezione islamica, che invece non esiste. “Di storie come queste ce ne sono a centinaia – racconta Stefano di “Un Ponte Per” – ma nonostante tutto a queste barbarie non ci si abitua mai”.

Ascoltare queste storie nel giorno in cui questa parte di mondo pare capovolgersi rende ancora più difficile accettare quanto sta accadendo. Sono ormai 48 ore infatti che in barba alla logica, la nostra si intende, Erdogan fingendo di attaccare Isis in Siria approfitta per  colpire le postazioni dei combattenti curdi. Anche in Iraq del Nord, il Kudistan liberato di Barzani. I due leader si sono sentiti al telefono ma cosa si sono detti davvero lo sanno solo loro. L’unica cosa certa che i loro rapporti sono sempre stati stretti e che la Turchia è il primo partner commerciale, non solo politico, del Kurdistan iracheno. Il risultato è quello che molti fanno finta di ignorare. Attaccare gli unici che da quando esiste si oppongono a ISIS è quanto sta accadendo. L’aviazione turca ha colpito zone come quella di Xakurke, Qandil, Behdinan, Zap, Gare, Basye, Amedia e Avasin. Sono rimasti feriti anche diversi civili. Se non bastasse in Turchia sono state arrestate più di 1600 persone. Tutte curde naturalmente. La risposta è stata immediata. Manifestazioni di piazza in molte città, non solo a Istanbul, represse da polizia ed esercito. Anche in altre città europee ci sono state manifestazioni, come a Londra e Berlino.

Se dopo la strage di Soruc Erdogan ha finto di volere intervenire contro Isis, amo cui hanno abboccato quasi tutti, media occidentali compresi, pare  incomprensibile come mai a distanza di tanti giorni dalla suddetta tragedia nessuno ne rivendica la paternità. Eppure ISIS si prende sempre il “merito” di queste azioni, che siano in Rojava, in Tunisia o in Francia. Perché questa volta non l’ha ancora fatto è una domanda che è lecito porsi. L’unica cosa chiara che il patto di non belligeranza tra Pkk e il governo di Erdogan è andato gambe all’aria, proprio a poche settimane da un voto che ha visto il partito turco curdo, HDP, raccogliere moltissimi voti e mettere in difficoltà l’AKP che fino a quel giorno “regnava” indistrubato.  Ocalan sono mesi che non può vedere neppure i suoi avvocati, isolato com’è. Pare difficile possa dare ordini se non può vedere nessuno. La situazione è quindi molto complicata e non può che peggiorare. Il gioco cui sta giocando Erdogan è molto pericoloso. Il Consiglio esecutivo del Congresso Nazionale del Kurdistan chiede a gran voce una presa di posizione da parte della comunità internazionale che però tarda ad arrivare.


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