Mastro Titta, er boia de Roma

0 0

Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta ( Senigaglia 6 marzo 1779 – Roma 18 giugno 1869) è molto noto come ER BOIA DE ROMA, celebre esecutore delle sentenze di morte dello stato Pontificio. A Roma abitava in via del Campanile 2, nel rione BORGO, sulla riva destra del Tevere, allora dentro la cinta Vaticana. La casa è ancora visibile si trova  in  una traversa di via della Conciliazione. Particolare curioso, quando non esercitava il suo mestiere di Boia de Roma vendeva ombrelli.

Nella sua lunga vita ha eseguito oltre 500 esecuzioni e alla veneranda età di 90 anni è morto serenamente sul suo letto senza un ombra di ripensamento sul suo lavoro svolto. Ha lascito un libretto su cui ha annotato tutte le sue esecuzioni, e ci ricorda che  Mastro Titta ha sempre creduto che chi commette un peccato, deve espiare e quindi considerava un atto di giustizia che chi uccide deve essere ucciso. Le sue annotazioni sono diventate un romanzo popolare pubblicate a dispense dall’Editore Perini nel 1891 con le illustrazioni di Ottavio Rodella.

Nelle piazze dove avvenivano le esecuzioni Capitali, specialmente a Roma, si radunavano molte persone ed erano considerate dal popolo una forma di svago e intrattenimento, se pur crudele organizzato dallo Stato Vaticano.
La sua carriera di Boia inizio a 17 anni quando il 22 marzo del 1796  a Foligno impiccò e squartò il suo primo condannato a morte Nicola Gentilucci. L’esecuzione di questo giovane è molto famosa poiché è la prima eseguita da Mastro Titta e molto raccontata, ma la vogliasmo ricordare.

Nicola Gentilucci di Foligno, per gelosia nei confronti della sua donna,aveva ucciso un prete, il suo cocchiere, poi datosi alla macchia aveva rapinato e ucciso due frati che aveva incontrato.  Preso fu condannato e di questa esecuzione sappiamo quanto ci racconta Mastro Titta.

Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, a Foligno impiccando e squartando. Giunto a Foligno incominciai a conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la notte a sfondare la porta d’un magazzino per provvedermelo. Ma non per questo mi scoraggiai e in quattr’ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale che mi servivano. Nicola Gentilucci frattanto, a due ore di notte, dopo avergli rasata la barba e datogli a vestire una candida camicia di bucato e un paio di calzoni nuovi, venne condotto coi polsi stretti da leggere manette, nella gran sala comunale, poiché volevasi dare la massima solennità all’esecuzione, stante la gravità del suo delitto, superiore a qualsiasi altro, trattandosi dell’uccisione di un curato e di due frati. La compagnia dei Penitenti Bianchi in abito di cerimonia, col cappuccio calato sul volto, schierata in due file, dalla porta all’estremità opposta l’attendeva. In faccia alla porta era stato collocato un grande crocifisso con due confrati ai lati, e una schiera di religiosi, invitati a confortare il paziente.

Il bargello e gli sbirri che lo conducevano, giunti alla porta della sala, bussarono e questa venne aperta. Quella scena commosse vivamente il Gentilucci, nondimeno entrò. Non appena ebbe fatti pochi passi il balio, aiutante del cancelliere, che ne porta gli emblemi, gli presentò una carta dicendogli:

– Nicola Gentilucci, io ti cito a morte per domattina.

Il complimento poco gentile impressionò il condannato per modo che si lasciò sfuggire di mano la carta, e sarebbe caduto egli stesso svenuto, se non lo avessero sorretto il confessore e i confortatori, i quali lo condussero poi in una sala vicina, dove, sdraiato su di un materasso posto per terra, lo lasciarono dormire. Due ore innanzi lo spuntare del giorno susseguente lo svegliarono per fargli ascoltare la messa: il confessore gli parlò e gli impartì l’assoluzione e l’indulgenza in articulo mortis che il papa soleva concedere in tali circostanze. Confessato e comunicato, i confortatori gli apprestarono l’asciolvere. Gentilucci mangiò, bevve e si trovò alquanto rinfrancato d’animo.
Nondimeno il confessore lo confortò ancora, assicurandolo che egli stava per avviarsi al cielo. Il condannato avrebbe forse desiderato di differire d’un altro mezzo secolo il viaggio, ma assicurato che non avrebbe che differita la sua felicità, si preparò a farlo allegramente.

Mi presentai in quel mentre e togliendomi il cappello ossequiosamente offersi una moneta al Gentilucci, come di rito, perché facesse celebrare una messa per la sua anima. Quindi, ricopertomi il capo, gli legai le mani e le braccia in modo che non potesse fare alcun movimento tenendone i capi nelle mie mani per di dietro.

La Confraternita della Morte aperse il corteo. I confrati indossavano il loro saio ed avevano il viso coperto. Essi salmodiavano in tetro tono il Miserere. Venivano poi i Penitenti Azzurri, ultimi i Penitenti Bianchi ai quali era serbato il posto d’onore: cantavano pur essi nel medesimo tono il salmo stesso, seguendo gli uni agli altri, per non interrompersi, di guisa che quando gli uni cantavano gli altri tacevano.
Dopo le confraternite v’erano i bargelli delle città vicine e gli sbirri in grande uniforme, e a questi teneva dietro il paziente, condotto pei capi della fune da me stesso, – umile ma pur raggiante in tanta gloria – circondato dai confortatori e dal confessore.

Giunto sulla spianata ove doveva aver luogo l’esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare eretto di fronte alla forca e quivi recitò un’ultima preghiera. Poi, rialzatosi, lo condussi verso il patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale, mentre io ascendevo per un’altra vicinissima.

Giunto alla richiesta altezza, passai intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s’avesse a rompere la più piccola, detta mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano ad alta voce il Pater Noster e l’Ave Maria e il Gentilucci rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato l’ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette.

La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione.

Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari.

Considerazione finali: le popolazioni che erano sottoposte alla sovranità politica e giuridica dello Stato della Chiesa avevano delle condizioni di vita sociale particolarmente ingiuste. Ricordiamo che vi erano, tasse, soprusi, carcerazioni, uso della gogna, torture e condanne capitali eseguite nelle pubbliche piazze.

Mastro Titta con i suoi ricordi e la crudeltà delle esecuzioni in cui il condannato dopo essere stato giustiziato era squartato e i resti messi ai lati del patibolo come monito, incarna in se con la sua persona  e l’asprezza delle sue esecuzioni la civiltà dello Stato Vaticano nel 1800 e le sue evidenti contraddizioni sociali e politiche.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21