Il ddl Diffamazione alla Camera. Le stravaganze di una riforma necessaria

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La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sta procedendo, in queste ore, all’approvazione della riforma della legislazione civile e penale in materia di diffamazione tramite mass media. È un testo normativo fondamentale, atteso ed auspicato da anni da quanti si battono per bilanciare, in maniera adeguata alle nuove forme di comunicazione e nel rispetto dei solenni dettami costituzionali, il diritto di cronaca e di critica giornalistica con le imprescindibili esigenze di tutela dell’onore e della reputazione di ogni persona. In questa sua ultima stesura, il disegno di legge recepisce alcune lungimiranti osservazioni formulate dalle diverse realtà rappresentative del “mondo dell’informazione”, pur conservando intatte certe singolari costruzioni giuridiche che sono destinate, inesorabilmente, ad essere ridimensionate dall’intervento della giurisprudenza di legittimità.

L’eliminazione della pena detentiva per il reato di diffamazione, ancor oggi prevista dall’art. 595 c.p. e dall’art. 13 della legge n. 47/1948, è senz’altro la novità “politicamente” più apprezzabile dell’intera novella legislativa. A fronte di questa rinfrancante enunciazione di progresso e civiltà giuridica, non sono poche le censure (è proprio il caso di dirlo) che vanno rivolte a questo provvedimento normativo. Il legislatore ha perso l’occasione migliore per introdurre nel nostro ordinamento una nuova fattispecie di “diffamazione colposa”, sicuramente più efficace nel disciplinare la condotta tipica del giornalista che, quando fa male il proprio mestiere (il che capita anche di frequente), manifesta solitamente una intollerabile negligenza professionale o una qualche grave superficialità ma quasi mai il “dolo”, vale a dire la ponderata volontà di ledere l’altrui reputazione. La configurazione di una ipotesi “colposa” di diffamazione a mezzo mass media avrebbe consentito al giornalista di accedere a forme di copertura assicurativa analoghe a quelle di cui già godono altri professionisti (medici, avvocati, notai ecc.), meglio tutelando nel contempo la sua serenità e la pretesa risarcitoria di tutti i potenziali “soggetti passivi” dei più comuni “reati di stampa”.

Nel “disegno di legge Verini” rimane immutato l’obbligo del direttore o comunque del responsabile della testata di «pubblicare gratuitamente e senza commento, senza risposta e senza titolo» le dichiarazioni e le rettifiche dei soggetti «di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità, del loro onore o della loro reputazione o contrari a verità». Non vi è spazio, secondo la prescrizione normativa, per valutazioni di sorta circa le precisazioni della “parte offesa” che – inutile dirlo – finiranno per riempire sezioni intere dei giornali e dei siti di informazione. Unico impedimento alla pubblicazione delle propalazioni dell’interessato si configura nel caso in cui tali dichiarazioni o rettifiche «abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale» (come attualmente già previsto) o «siano inequivocabilmente false». Proprio tale “estremo” inciso non può che dar adito ad enormi perplessità nella coscienza del giurista. Con quali strumenti può e deve essere accertata o esclusa preventivamente la “rilevanza penale” dei contenuti della rettifica o la sua “inequivocabile” falsità? E quali sono i parametri di fatto (oltre che di diritto) su cui dovrebbe basarsi questa funzione di “filtro”? Esclusi ovviamente i casi di rettifiche piene di insulti ripugnanti, minacce esplicite di morte e oscenità, in cui la sussistenza della fattispecie di reato che discende dal contenuto dichiarativo è facilmente intuibile, appare chiaro che, in linea di principio, ogni affermazione sia sempre di per sé “suscettibile di incriminazione penale”. In passato, si è sostanzialmente trascurata questa evidenza empirica ma, nel rigore della nuova normativa, è facile pensare che qualche direttore vorrà (legittimamente?) opporsi alla pubblicazione di rettifiche che, per quanto articolate con un lessico formalmente ineccepibile, vengono percepite come una “offesa” per la professionalità della redazione giornalistica e pertanto sono, a loro volta e per ciò solo, “suscettibili di incriminazione penale”. Allo stesso modo, sarà interessante capire qual è il criterio in base al quale occorrerà discernere un contenuto «inequivocabilmente» falso, da un altro la cui distanza dal vero viene ritenuta “opinabile” dai causidici del XXI secolo. Se domani un notissimo boss di Cosa Nostra, reo di aver pianificato le più sanguinose stragi di mafia perpetrate nel nostro Paese, scrivesse alla redazione di un giornale per contestare l’articolo che lo ha descritto come “un criminale senza scrupoli”, asserendo di sentirsi, al contrario, un buon padre di famiglia perché è riuscito a crescere in latitanza i propri figli e perché (“bontà sua”) ha persino risparmiato la vita ad alcuni nemici della sua cosca, tale sorta di rettifica dovrà essere “obbligatoriamente” pubblicata (senza alcuna possibilità di commento) o no? Ma non è questa l’unica boutade che ci sembra di rinvenire nella riforma in esame. Paradossalmente esigua appare, infatti, la pena (multa da 10.000 a 50.000 euro) che il “nuovo” art. 13 della legge n. 47 del 1948 riserva a quel giornalista, indegno di essere definito come tale, che scientemente offende l’altrui reputazione mediante l’attribuzione di un fatto determinato falso, «la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità». Ognuno di noi è in condizione di valutare serenamente se è questa la sanzione “giusta” per colui che, fomentato da motivi di rancore personale o da altro, utilizza lo strumento mediatico per diffondere una devastante calunnia, magari accusando falsamente un onesto padre di famiglia di aver abusato della propria figlia minore.

Non si può fare a meno di dubitare, inoltre, della carica di deterrenza esercitata dalla sanzione prevista a carico di chi promuove una “querela temeraria”. Al riguardo, il “nuovo” comma 3 bis dell’art. 427 c.p.p. si limita a prevedere che il giudice può condannare il querelante a versare nella cassa delle ammende una somma compresa fra 1.000 e 10.000 euro. Maggiore apprezzamento merita lo sforzo con cui, grazie ad un emendamento dell’ultima ora, il legislatore ha inteso farsi carico dell’incresciosa situazione in cui si vengono a trovare i giornalisti che hanno lavorato per società editrici in crisi. Per salvaguardare chi è personalmente sottoposto a procedure esecutive senza poter più contare sul supporto finanziario dell’editore, viene proposta un’integrazione dell’art. 2751 del codice civile, con cui si dà priorità, all’atto della liquidazione del patrimonio fallimentare, al credito vantato nei confronti del proprietario della pubblicazione o dell’editore, dal direttore responsabile e dal giornalista ancorché pubblicista che, «in adempimento di una sentenza di condanna al risarcimento del danno derivante da offesa all’altrui reputazione, hanno provveduto al pagamento in favore del danneggiato, salvo nei casi in cui sia stata accertata la natura dolosa della condotta del direttore responsabile e del giornalista ancorché pubblicista». Al di là di ogni lodevole intenzione, non sarà facile in concreto, per il singolo giornalista, riuscire a fruire dei “benefici” derivanti da questo suo “privilegio creditorio” (che è sempre limitato all’ammontare pro quota, generalmente un terzo, dell’obbligazione risarcitoria solidale), posto che la sua responsabilità “dolosa” è il naturale presupposto di ogni condanna penale per il reato di diffamazione ed è solitamente presunta anche in sede di condanna civile. Più immediato è il vantaggio che deriva, da questo emendamento legislativo, per il direttore responsabile che è generalmente chiamato a rispondere degli scritti ritenuti diffamatori per omesso controllo e, quindi, per mera colpa. È vero, nonostante tutto, che la riforma dell’istituto giuridico della diffamazione segna un passo in avanti per la nostra società. C’è però ancora il tempo per migliorare, negli ulteriori passaggi parlamentari, questo testo normativo alla stregua del quale in molti, in Italia ed in Europa, non mancheranno di valutare il livello attuale della libertà di informazione nel nostro Paese. Speriamo che non latiti, in tal senso, la volontà del legislatore.


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